Paolo Perrone recensisce April affrontando il tema del mostruoso che è in noi. Il film è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.
Il compito di favorire le nascite, in sala parto, ma anche, nei villaggi di campagna, la pratica clandestina di interruzione delle gravidanze. Il rigore impeccabile della professione medica, riconosciuto da colleghi e direttori sanitari, ma anche gli sbandamenti esistenziali, con un percorso di degrado morale autopunitivo, e il peso, quasi insopportabile, di un passato generatore di traumi e sofferenze. Una duplicità lacerante, quella che caratterizza la protagonista di April, un’ostetrica finita sotto esame, nella stessa struttura ospedaliera in cui lavora, per un neonato morto subito dopo la sua venuta al mondo.
Come la sua folgorante opera d’esordio, Beginning, anche il secondo lungometraggio della georgiana Dea Kulumbegashvili è un’esplorazione dell’orizzonte psicologico femminile effettuata in forme dicotomiche e ancestrali e formalizzata, sullo schermo, in una cadenza narrativa fondata sulla dilatazione reiterata dei tempi (talvolta con punte di sospetto autocompiacimento) e in un’architettura visiva autoriale e intransigente: le inquadrature per lo più fisse, la traduzione del proprio sguardo prevalentemente in soggettiva, l’importanza fondamentale, nel racconto, del fuori campo, l’attenzione meticolosa al sound desing.
Aperto sulla realtà del proprio Paese, in modalità introspettive, April, però, pulsa anche di una dimensione simbolica e visionaria, una sorta di feto in scala adulta, non a caso presenza introduttiva alle vicende, che incarna, con ogni evidenza, i sensi di colpa della ginecologa e i cortocircuiti avvertiti sin dall’infanzia. Se il tema di fondo del film resta la possibilità, per ogni donna, di poter decidere liberamente del proprio corpo, April, tuttavia, con il suo carico di angosciosa mostruosità, si apre a riflessioni profonde che investono, prima ancora della responsabilità deontologica di una persona, l’intera esperienza di un essere umano.