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ARAGOSTE A MANHATTAN (Alonso Ruizpalacios)
L’altra faccia del sogno americano

Un cuoco di origine messicana, Pedro, e una cameriera americana, Julia, vivono una relazione burrascosa ma tenera nelle caotiche cucine del The Grill, affollato ristorante di Times Square, a New York, che serve migliaia di pasti ogni sera, nel quale le mance sono generose e gli immigrati cercano lavoro perché accolti senza documenti. Quando Julia scopre di essere incinta, Pedro prova a convincerla a tenere il bambino, immaginando per loro un futuro diverso dal loro estenuante presente. Ma le cose si complicano quando viene scoperto un ammanco di 800 dollari da una delle casse del ristorante…

Basato sulla vibrante pièce teatrale The Kitchen di Arnold Wesker, Aragoste a Manhattan (titolo assai meno incisivo dell’originale La cocina) è quasi interamente ambientato tra le pentole e i fornelli di un convulso, labirintico ristorante newyorkese, dove lingue e culture, provenienze e caratteri si mescolano senza sosta. Tragicommedia caustica, irriverente e sguaiata, ma dai profondi riflessi sociologici, contrassegnata da bulimia dialettica e parossismo narrativo ma sostenuta da una regia incandescente, con la macchina da presa che ‘danza’ letteralmente nell’incessante via vai di fritture di pollo e pietanze lessate, il lungometraggio scritto e diretto dal messicano Alonso Ruizpalacios (già autore di Museo – Folle rapina a Città del Messico, Orso d’argento per la miglior sceneggiatura alla Berlinale 2018), incastonato in un suggestivo b/n, è un caleidoscopio vorticoso, una sarabanda infernale, una babele di voci, rumori, sudori, imprecazioni e litigi capace però, per le tante stratificazioni di cui è composta, di farsi specchio riflettente e deformante dell’american dream.

Ispirato all’esperienza diretta del regista, lavapiatti in un locale londinese durante gli anni dell’università, Aragoste a Manhattan, al netto di ogni esuberanza, diegetica ed estetica, è una dirompente denuncia della perdita di dignità sotto la bandiera a stelle e strisce di un capitalismo regolato dalle sole, disumane logiche del profitto. Facendo delle divisioni gerarchiche tra management e personale interno e, dunque, della struttura piramidale di un locale di ristorazione la metafora di una società multietnica disunita e disgregata, costretta a condividere, sgomitando, lo stesso spazio vitale, il film di Ruizpalacios, nella sua continua sovrapposizione di accenti e idiomi (ispanici, mediorientali, indiani, est europei, oltre che statunitensi), esprime un disagio palpitante e un comune, amaro destino: quello di lavoratori precari, appesi al filo sottile di una laboriosità ‘formicaia’, in attesa, sempre rinviata, dei documenti per la regolarizzazione, uscendo dalla clandestinità. Obbligati ad una frenetica celerità nella raccolta delle ordinazioni, nell’arroventata preparazione di pessimo cibo e nel funambolico servizio ai tavoli, cuochi e addetti di sala, sottoposti a ritmi sfiancanti, appaiono così i nuovi ‘dannati’ di un girone dantesco nel quale, in realtà, sfrontatezza e aggressività sono la corazza di latta sotto la quale si celano inadeguatezze e smarrimenti, disillusioni e fragilità.

Ritratto, dunque, di una comunità meticcia, effervescente e impetuosa ma reclusa nei bassifondi e prigioniera della propria marginalità, Aragoste a Manhattan comprime e soffoca volutamente ogni apertura verso l’esterno. Eppure, nel lasciar percepire i tumulti interiori di ogni personaggio (soprattutto di Julia e Pedro, al contempo detestabili e amabili, impersonati dagli eccellenti Rooney Mara e Raùl Briones), il film di Ruizpalacios trova il suo momento più alto proprio fuori dai vapori della cucina, nel vicolo adiacente al ristorante in cui si ritrova, in pausa dal proprio turno, un gruppetto di chef, aiutanti e inservienti: la sospensione temporanea da affanni, insulti e isterie prende le forme della confessione reciproca, della descrizione dei sogni che ciascuno alimenta faticosamente dentro di sé. Pochi, emozionanti minuti prima di sprofondare nuovamente all’inferno. Attimi di pura, rarefatta e lacerante poesia.

Regia: Alonso Ruizpalacios

Interpreti: Raúl Briones, Rooney Mara, James Waterston, Oded Fehr, John Pyper

Nazionalità: Usa, 2024

Durata: 139’

 

vedi anche:

UPON ENTRY – L’ARRIVO (Alejandro Rojas e Juan Vàsquez)

 

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.