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Dentro il tabù
Due spettacoli e un testo intorno alla morte

La morte è un argomento tabù, nessuno vuole ricordare l’esito finale che tutti attende, nessuno vuole della vita rammentarne l’ultimo atto, l’ultimo momento. Eppure è proprio la morte uno dei temi portanti dell’arte, in tutte le epoche e in tutte le culture. Che sia per esorcizzarla, che sia per accettarla che sia persino per negarla, la fine della vita ha rappresentato sempre per l’uomo un tema “caldo” con cui confrontarsi, sia individualmente che collettivamente. E quando si parla di confronto collettivo nessuna arte è più adatta allo scopo del teatro, il palco è una piazza della società, un’agorà, come ben intuirono gli antichi greci, dove ogni cosa umana diventa tangibile e dialettica.

Nella storia della letteratura teatrale il tema della morte è sempre stato presente e con esso il grande mistero che avvolge la fine di tutto: cosa si prova? Cosa succede davvero? Cosa ci aspetta dopo? Esiste un dopo o siamo solo esseri biologici destinati a disperderci per sempre?

Per riflettere intorno a queste tematiche abbiamo scelto due spettacoli recenti che hanno cercato di investigare il tema della morte in maniera diversa e poi uno spettacolo potenziale, ovvero un testo che parla della morte nel modo più (ahimè) attuale possibile. Un piccolo spunto di riflessione in attesa di tornare a teatro.

Sulla morte senza esagerare è uno degli spettacoli più celebri del Teatro dei Gordi, un collettivo artistico che dal 2015, sotto la guida del regista Riccardo Pippa, pratica e ricerca un teatro non verbale, fisico, per attori con maschere e senza maschere, che mira a superare le barriere linguistiche con il pubblico.

Nello spettacolo, omaggio alla poetessa polacca Wisława Szymborska, la morte è rappresentata da un uomo in pantaloni grigi, camicia e cardigan azzurro, seduto su una panchina, accanto a un lampione e che naturalmente indossa la maschera del teschio. Abbandonati i panni della spietata mietitrice, la morte incontra qualche difficoltà a svolgere il proprio compito e pur mantenendo la propria natura, finisce per perdere il suo alone spaventoso e suscitare nel pubblico simpatia e comprensione. Dalle quinte sopraggiungono gli altri personaggi, sono uomini e donne che stanno per lasciare il mondo dei vivi: c’è il suicida recidivo, la giovane vittima di un incidente stradale, due anziani coniugi, una prostituta allo sbando, un soldato, una donna incinta che rischia di perdere il figlio. Ognuno di loro rivive la sua storia, la morte placidamente attende che le anime si arrendano da sé e le accompagna attraverso la soglia, l’ultimo gesto è sfilargli la maschera prima di scomparire dietro le quinte.

Un approccio senza dubbio originale quello proposto dai Gordi, con una leggerezza solo apparente in realtà vuole raccontare l’accettazione, non la rassegnazione ma la consapevolezza che ogni persona deve affrontare: tutti moriamo, non è il caso di farne un dramma.

Di taglio certamente più classico è l’Antigone per la regia di Massimiliano Civica. Il dramma di Sofocle, come è noto, è tutto costruito sul conflitto fra Antigone che vuole seppellire il fratello Polinice e Creonte, re di Tebe, che ne ha vietato le esequie in quanto traditore della città. Nella lettura di Civica l’aspetto politico tradizionalmente attribuito all’opera viene mitigato in favore di un’analisi accurata del rapporto che la società e l’uomo ha con i defunti. Il corpo di Polinice in proscenio è illuminato e quando i personaggi gli passano a fianco e stendono sul corpo la mano quella luce si spegne, un gesto che sembra suggerire che tutti, indistintamente lo seppelliscono e lo disseppelliscono: noi tutti siamo complici e autori di quell’atto che può essere al tempo stesso pietoso e irrispettoso. Massimiliano Civica non ci dà risposte, non parteggia per nessuno, non ci consola e anche quando alla fine, dopo la morte di Antigone, Creonte chiede di porre fine alla sua vita, il corifeo gli risponde: «Dopo morirai. Quando sarà. Ora devi occuparti di noi. È compito tuo. Adesso puoi governare. Adesso devi governare».

Come anticipato, l’ultimo capoverso non è dedicato a uno spettacolo ma a un testo teatrale – molto poco rappresentato in Italia – che tratta il tema della morte con un sorprendente taglio attuale: Il Gioco dell’Epidemia di Eugène Ionesco, che ha debuttato sulle scene nel 1970, esattamente 50 anni fa.

In una città non identificata e in un’epoca altrettanto indefinita, ma potremmo essere ai giorni nostri, un bel giorno, così all’improvviso, senza che ce ne sia la minima avvisaglia, si scatena una furibonda epidemia. Non si sa di che si tratta, l’unica certezza è che le persone muoiono come mosche, e nessuno sembra comprendere esattamente perché. Con queste premesse, Il Gioco dell’Epidemia diventa una sorta di gran varietà della morte: un bizzarro cabaret composto di venti e più quadri, con cento e più personaggi, in cui i fili delle vite si spezzano a sorpresa, senza logica alcuna. Un testo sorprendente e spiazzante, come spesso accade nella drammaturgia di Ionesco, che sembra avere come intento quello di rappresentare l’inconoscibilità e l’imprevedibilità della morte stessa. A leggere le battute dei personaggi sembra di essere in un qualunque dibattito televisivo di questi giorni. Dice un ricco borghese: “…i malati, i morenti e i morti sono o sono stati imprudenti. È sufficiente non mescolarsi alla folla…. “, e un ideologo: “… non si tratta di discutere le cause, ma il significato della malattia. A chi rendono tutti questi morti?”; un medico: “…si muore per ignoranza. Se ci si attenesse ai precetti della medicina, per filo e per segno, nessuno morirebbe”, e un vecchio, teneramente, alla vecchia moglie: “…la felicità era a portata di mano. Non me ne ero accorto. Vieni, bambina mia, io ti conduco e tu mi porti nella tua notte”.

Una buona lettura per le prossime settimane, in attesa di poter tonare presto in teatro, e affrontare insieme il più temibile dei tabù.

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Sull'autore

Marina Saraceno

Diplomata all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" e laureata in Scienze della Comunicazione con una tesi sul teatro tradizionale cinese. In teatro ha lavorato con Luca Ronconi, Mario Scaccia, Jacques Decuvellerie. Ha lavorato per la comunicazione e la promozione culturale, tra gli altri, con il Teatro Nazionale di Roma, L'Associazione Italiana Editori, l'Ente Teatrale Italiano, Rai Trade, l'Unione des Theatres d'Europe, il Teatro Stabile del Veneto, il Progetto Domani per le Olimpiadi di Torino e la Fondazione Comunicazione e Cultura della CEI. Come giornalista ha collaborato con l'agenzia com.unica, il bimestrale Sale della Comunità, il settimanale pagina99