Roma Primo piano Festival Filmcronache

FILM TRA PASSATO E PRESENTE
La 17ma Festa del cinema di Roma corre sul "filo del tempo"

Tra le varie sezioni allestite dalla 17ª Festa del cinema di Roma, all’interno di un cartellone estremamente eterogeneo, è possibile rintracciare sul filo del tempo, senza pretesa di esaustività, alcuni titoli caratterizzati da architetture narrative che, da un lato, retrocedono al passato (nel tentativo di parlare indirettamente al presente) e, dall’altro, affrontano invece la contemporaneità (per decifrare, in qualche modo, un futuro prossimo, alquanto incerto).

Foudre di Carmen Jaquier, ad esempio, indietreggia le vicende all’estate del 1900, mettendo in stridente contrapposizione la pace del convento nel quale la diciassettenne Elisabeth sta facendo il suo noviziato con le inquietudini generate, dopo la morte improvvisa della sorella maggiore, dal suo rientro nel villaggio di montagna dove è cresciuta. Un confronto tra ‘mondi’, ugualmente ‘sospesi’, che, osservato da prospettiva femminile, si fa scontro, e che, nelle asprezze di un desiderio di libertà soffocato da silenzi e costrizioni, fa trovare al film un suo preciso baricentro emotivo.

Anche L’envol di Pietro Marcello parte da un lutto e da un rientro a casa, quello di un falegname che, dopo aver combattuto nella Grande guerra, torna nel suo villaggio normanno dopo la morte della moglie e la nascita della loro bambina. E anche qui, come in Foudre, l’equilibrio esistenziale di Juliette, una volta divenuta adolescente, passa da un percorso di non facile emancipazione dai pregiudizi della gente del luogo, che considera la ragazza, la gentile vedova che la ospita e il padre reduce di guerra, benché stimato intagliatore, persone da non frequentare perché non omologate ai codici e alle convenzioni della piccola comunità locale. Tratto dal racconto Vele scarlatte dello scrittore russo Alexandr Grin, il film del regista di Martin Eden mescola atmosfere favolistiche e, seppure solo a tratti, dimensione documentaria, attingendo comunque dalla realtà per esplorare i territori affascinanti di un’avventura umana insieme dolce e amara, antica e moderna. Un’operazione riuscita, nutrita di tempi di racconto dilatati, ma necessari a definire con accuratezza i confini relazionali e le psicologie dei personaggi, e supportata da una regia delicata che accompagna i protagonisti, nel loro cammino di vita, con sottile ma autentica empatia.

Il 1945, con una Milano sconvolta dalla guerra, è invece il momento storico in cui si snoda la vicenda di Rapiniamo il duce di Renato De Maria. Un prodotto, targato Netflix, assai ben congeniato dal punto di vista dell’allestimento scenografico e ben sorretto da un adeguato apparato tecnico, debitore, nella costruzione dei caratteri dei personaggi, di evidenti influenze fumettistiche, capace di snodare le proprie trame con piacevolezza senza però aggiungere molto d’altro. Pietro Castellitto, Matilda De Angelis, Filippo Timi, Isabella Ferrari appaiono a loro agio nei panni rispettivamente di un ladruncolo/contrabbandiere, di una cantante/amante di un gerarca fascista e della trascurata consorte di quest’ultimo, sadico e torturatore. Al centro della vicenda, il tentato furto dell’”oro di Mussolini”, un ingente patrimonio custodito in un luogo segreto sorvegliato da mille fucili. Heist movie ricco di colpi di scena, Rapiniamo il duce, per l’impegno produttivo e la resa spettacolare, riconduce inevitabilmente a Freaks Out, anche, come detto, per il pregevole cast di cui dispone (con Castellitto a fare da ‘cerniera’ per entrambi i film). Ma come il lungometraggio di Mainetti, anche quello di De Maria non prende davvero di petto il tema da cui origina (la lotta armata contro il nazifascismo), preferendo circumnavigare la Storia e la sua tragicità restando ancorato alla boa rassicurante dell’intrattenimento.

A guardare avanti, anziché ripercorrere il passato, sono invece due film assai diversi tra loro ma accomunati da uno sguardo sull’oggi che lascia sul tappeto numerosi punti interrogativi sul domani. Due film nei quali la radiografia del presente rivela, in forme distopiche, sia derive geopolitiche niente affatto dissimili dalle tensioni internazionali scaturite dall’invasione russa in Ucraina, sia nitidi riflessi post pandemici, inquietanti e allucinati.

Stiamo parlando, da un lato, di War – La guerra desiderata e, dall’altro, di La Tour. Il primo, firmato da Gianni Zanasi, parte bene, usa i toni fantasiosi della commedia (anche grazie ad un cast che annovera, tra gli altri, Edoardo Leo, Giuseppe Battiston, Miriam Leone, Stefano Fresi) per rendere plausibile ciò che solo tre anni fa, quando è stata stesa la sceneggiatura del film, sembrava impossibile nella realtà, cioè, sullo schermo, un imminente conflitto armato nel cuore dell’Europa, con l’Italia in guerra con la Spagna e la Francia dopo un episodio di violenza fra ragazzi italiani e spagnoli. Dopo aver introdotto i vari personaggi e averli indirizzati su una linea narrativa fantapolitica alquanto suggestiva (con l’addensarsi di molti malesseri sociali contemporanei nell’illusoria, liberatoria difesa del suolo patrio), lo script di War – La guerra desiderata, però, smarrisce lo slancio iniziale e incespica su se stesso: non approfondisce i caratteri dei protagonisti, limitandosi a reiterarne le marcature più superficiali, indugia sulle derive sovraniste e i pruriti neofascisti, rinunciando al prezioso filtro del surreale, alterna con eccessiva nonchalance comicità e dramma, scrollate di spalle e pugni duri.

Anche il lungometraggio di Guillaume Nicloux sollecita lo spettatore sul registro dell’inverosimile, privilegiando però le tinte forti e le venature horror: interamente concentrato sugli inquilini di un condominio delle banlieue parigine che, da un giorno all’altro, si vedono circondati da un buio totale che, oltre le porte e le finestre dei singoli appartamenti, inghiotte chiunque intenda uscire in esterno, La Tour spinge alle estreme conseguenze l’isolamento planetario dovuto al lockdown per la pandemia da Covid-19. Un inquietante, allarmante ‘esperimento antropologico’ su grande schermo che, lavorando sul claustrofobico e facendo tesoro delle lezioni di Tarkovskji (Stalker) e Carpenter (The Fog) mostra un’umanità allo sbando, divisa più che mai dal colore della pelle, resa incattivita e disumana dalle privazioni a cui è sottoposta e in cerca di una sopravvivenza impossibile.

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.