Paolo Perrone recensisce Harvest, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 81.
Tratto dal romanzo omonimo di Jim Crace, il quarto lungometraggio di Athina Rachel Tsangari è ambientato in un piccolo villaggio scozzese del tardo ‘500, popolato da una ristretta comunità rurale, in un momento storico in cui i terreni passano da beni collettivi a beni posti sotto il controllo diretto ed esclusivo dei legittimi proprietari. È proprio questa “rivoluzione agricola” l’oggetto del racconto di Harvest, che nel dare forma, sullo schermo, ad un modello di società pre-capitalistica, del tutto avulsa dalle logiche del profitto e interessata unicamente all’autosussistenza, introduce nel nucleo abitativo tre forestieri, estranei alle radici contadine: un cartografo incaricato di mappare i confini della proprietà, attribuendo nomi precisi agli spazi e alle aree del villaggio, un bracciante proveniente dalla città, che fa da catalizzatore alle vicende, oltre che voce narrante del film, il cugino del mite possidente locale, che intende far valere i diritti di successione e sfruttare economicamente il lavoro della terra.
Girato in 16mm, con una sgranatura dell’immagine finalizzata a far risaltare atmosfere, personaggi e ambienti, Harvest, nel suo impianto naturalistico e antispettacolare, per quanto distante dagli echi metafisici del cinema di Terrence Malick, è una riflessione sulla perdita dell’innocenza, sulla brusca acquisizione di una consapevolezza imposta con il sopruso e il cinismo. Una sorta di western ante litteram, in cui nulla, a cominciare dall’incendio del fienile che fa da inizio alla storia, sembra davvero determinante, ma nel quale, invece, in forme carsiche, la modernità, nelle sue spirali più avvolgenti, arriva a corrompere un’armonia primigenia. Un lavoro sommerso e intrigante, dunque, che non offre risposte alle domande che solleva ma che lascia parecchie ombre sul nostro tempo presente.
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