Pare che ai tempi in cui Milos Forman girò Man on the Moon con Jim Carrey, la Universal impose di non mostrare le immagini del backstage per non far vedere quanto l’attore fosse fuori di testa (la parola usata nel film è molto più volgare…). Perché per interpretare il ruolo del bizzarro comico Andy Kaufman e del suo burbero alter ego Tony Clifton, Carrey diventò loro anche al di fuori del set, comportandosi con lo stesso estro comico, ma anche burbero e irascibile, dei due. La simulazione divenne talmente travolgente che si perse di vista totalmente il confine tra realtà e finzione. Vederlo, oggi, causa ben presto fastidio e senso di saturazione, soprattutto quando il più maturo attore racconta commosso alla macchina da presa che persino la figlia di Kaufman che lui non aveva mai conosciuto andò a parlare a Carrey come fosse suo padre.
Nel raccontare questo e altri episodi l’attore nato in Canada è decisamente antipatico, sembra non cogliere minimamente l’aberrazione morale di quanto dice. Si atteggia un po’ da vincente, l’uomo che si è fatto da sé partendo da zero, un po’ da santone, che coglie l’illuminazione grazie all’affiorare di delfini sulla superficie del mare o grazie a una veggente che gli legge la mano. Eppure l’inquieta disperazione che trapela in un uomo fragile ricorda una versione parossistica delle psicosi che attanagliano l’uomo contemporaneo, e così alla fine la figura che incarna finisce per avere un senso, anche se forse non è esattamente quello che lui vorrebbe dargli. Conta l’abilità del regista nel mantenere un buon ritmo nell’alternanza di immagini di repertorio e dell’intervista al suo protagonista, e alla fine il film regge bene e ci offre un inquietante spaccato della società americana.