Ci siamo ricascati. Abbiamo scritto ovunque, soprattutto dopo la premiazione, che il Leone d’Oro di Venezia 81 «parla» di eutanasia. Ci ripromettiamo sempre di non ferire il cinema con queste semplificazioni, ma poi la banalità prende il sopravvento nei titoli che coprono tre quarti di pagina. Stavolta c’è cascato anche lo stesso regista posizionando il film in conferenza stampa «a favore dell’eutanasia» restringendo inevitabilmente l’opera The Room Next Door (La stanza accanto al cinema dal 4 dicembre distribuita da Warner) a quella faziosità che poi in realtà non le appartiene. Davanti al microfono Pedro Almodovar è andato a ruota libera su tutto quello che lo indigna, lo innervosisce, lo fa soffrire.
Ci sta, ma almeno qui dove tentiamo un approfondimento utile ad una situazione di Sala della Comunità proviamo a stare nei confini dell’opera perché il cinema non è un referendum, ma uno spazio di visione e di ascolto di una profondità immensa ed immersiva e le due attrici da lui prescelte hanno adempiuto con tutte se stesse a mantenere viva questa promessa. Julianne Moore e Tilda Swinton sono, infatti, le fondamenta solide di un film in realtà non così saldo. Ma partiamo dalle luci perché il desiderio è sempre quello di abbracciare più possibile quanto in un’opera può dirsi compiuto.
Se sofferenza e dolore si incontrano
Sulla soglia di una fine (quasi) scritta due amiche di vecchia data, Ingrid e Martha, si ritrovano dopo tanto tempo: conversano a più riprese, passano le ore a scandagliare i passaggi di vita irrisolti, i legami feriti che, in questo sipario che va chiudendosi, pesano per la loro sofferenza che si unisce in modo atroce al dolore fisico. Ecco, se c’è qualcosa che è davvero magistrale è questo incontro tra sofferenza e dolore che si imprime in modo imperituro sullo schermo nei volti comunicanti delle due attrici, entrambe nate nel 1960. Sono credibili, a loro agio, cariche probabilmente anche della loro anagrafica fuori dal set e pronte a giocarsi tutto.
È evidente che sono trattenute nei modi – più volte Almodovar ha sottolineato da che non voleva un melodramma – di esprimere questa convergenza di dolore e sofferenza. Anche se Martha rivendica la supremazia del maschile nella sua identità, dovuta alla sua professione di reporter di guerra, si percepisce davvero un ambiente interiore femminile che il regista ha sposato da sempre. È il femminile che mancava al capriccioso André, il protagonista del film è Andato tutto bene di François Ozon, anche lui convinto di chiudere il sipario, ma incapace di un’esplorazione autentica che avrebbe fatto tanto (del) bene alle due figlie.
Il femminile che però, va detto, non è la maternità e straordinaria in tal senso è l’ammissione, che diventa qui per noi anche distinzione, di Martha nel riconoscere che la figlia Michelle non ha avuto una madre. Martha vuole arrivare prima del cancro, sono le sue parole, ma mette anche agli atti dove non è arrivata nella sua vita affettiva: Martha ora è questa. Tutto il resto non le interessa più. Nemmeno di convocare tutti come avrebbe fatto il protagonista Remy in Le invasioni barbariche di Denys Arcand (era il 2003 a ribadire che l’argomento sullo sfondo, per tornare sulle semplificazioni da cui siamo partiti, ha ormai una filmografia ricca e datata).
L’etica dell’accompagnamento: la dignità
Se ripercorriamo lo sguardo di Almodovar ci rendiamo conto che non ci chiede di amarla o giudicarla o giustificarla. Di essere a favore o essere contro. Non mette in scena nemmeno l’eroismo, perché le guerre Martha le ha già vissute. Ci viene chiesto solo di contemplarla con il suo rossetto e il suo cappotto giallo, di stare con lei allo specchio della fine. Asciutti e puliti e d’altronde lei l’aveva detto.
Era il suo desiderio. Apriamo, qui, una parentesi importante in termini di riflessione e la chiudiamo anche subito perché è un tema aperto, esplorato e va considerato nella sua complessità: morire con dignità significa per ciascuno qualcosa di completamente diverso. La stanza accanto racconta più questo che l’eutanasia in sé, evento ormai molto presente nell’economia narrativa della cinematografia contemporanea. Questo è il mio sentire dopo due visioni (prima e dopo il Leone D’Oro) che anelano a quell’oggettività tanto ardua, ancor di più nella bulimia veneziana.
In definitiva in un’analisi con il pubblico andrebbe pesato maggiormente questo sostantivo – la dignità – dal significato così vertiginoso. Se l’etimologia è granitica, nella cultura del nostro tempo questo orizzonte tanto nominato assume declinazioni completamente diverse che fanno i conti con gli affetti, le biografie, le passioni, le capacità economiche.
La stanza accanto e il rischio dei film a tesi
In base alla combinazione di questi ingredienti in questi anni abbiamo visto film completamente diversi. Ognuno a suo modo, se vogliamo, era un film a tesi (una delle accuse che l’opera sta raccogliendo). Ingrid ha un parere diverso da quello di Martha sull’accorciare la vita, ma le loro vite non solo sono diametralmente opposte ma in quel letto c’è Martha, in quelle cure (il tema del proporzionato-sproporzionato è sullo sfondo) e lei dobbiamo ascoltare.
Non c’è contradditorio? A volte nel cinema è chiesto di stare ad ascoltare personaggi che non cambiano idea, che non evolvono secondo la teoria del viaggio dell’eroe di Vogler come succede anche al tanto acclamato Hirayama, protagonista di Perfect days di Wim Wenders… E non ci sono persone così anche nella realtà? Chi in questi anni ha visto molti dei film che stiamo citando ha raccolto storie ed emozioni molto diverse sullo sfondo del fine vita. E mi dispiace dirlo: non basta un film per avere le idee chiare. Forse il cinema ci rende capaci del dubbio, dell’ascolto, della ricerca.
Se si fa presto, quindi, ad inneggiare ai microfoni ad una doverosa legge sul fine vita – anche il cinema fuori dal cinema concorre a creare un sentiment in tal senso di una comunità –, si fa un po’ meno presto a capire cosa significhi morire con dignità. Forse per Anja, protagonista in Hope di Maria Sødahl, o per Olimpia, protagonista di Acqua e anice di Matteo Ceron – entrambi del 2022 –, è qualcosa di completamente diverso di quello che significa per Martha. La soggettività del malato, in definitiva, è un elemento di interesse e esplorazione del cinema contemporaneo perché non si tratta, in prospettiva etica, solo di sopravvivenza fisica. Almodovar, e prima di lui molti altri, posa il nostro sguardo sull’accettazione della condizione umana.
Quando il Leone non ruggisce
E veniamo alle ombre. Ritengo, invece, altamente sottotono rispetto al duetto Ingrid/Moore-Martha/Swinton, il trittico maschile composto da Damien, l’ex amante di entrambe interpretato da John Turturro (che spreco), il personal trainer e il poliziotto fanatico religioso. L’universo maschile dell’opera è condensato in questi tre interventi, ma i dialoghi non sono all’altezza delle funzioni narrative (rispettivamente un mondo agonizzante, l’abdicazione alla corporeità e l’assenza di laicità nelle istituzioni) affidate a ciascuno. Le conversazioni risultano banali, riduttive, ammuffite, faziose, ideologiche e indigenti a livello argomentativo rispetto alla serietà delle tematiche sullo sfondo.
L’altezza delle conversazioni tra le due protagoniste avrebbe, insomma, meritato altrettanta cura anche per questi inserti collaterali che frammentano troppo la finzione riportando lo spettatore ad una noiosa superficie dopo una mirabile profondità. Se ci aggiungiamo pure il siparietto imbarazzante sui carmelitani, il peccato e il senso di colpa in guerra – che sembra più una ceralacca del Pedro che un’esigenza narrativa – viene da dire che il film è un Leone d’Oro tutto al femminile, ma il resto è anche relegabile all’oblio.
Altro aspetto disturbante, in parte riconducibile all’estetica del colore e della composizione della scena tipica del regista e in parte alla confezione americana, è l’ossessione della perfezione del setting, il forzatamente lussuoso e alla fine quindi asettico che finisce per distrarre dallo sguardo delle cose ultime rivelate dalle parole, dalle movenze e dagli sguardi delle due protagoniste. Gli oggetti da rivista in quantità bulimica in ogni scena, i paesaggi volutamente mai bruschi, l’abbigliamento sempre iconico lavorano in direzione opposta all’autentico processo di anima che sta coinvolgendo le due donne. Direi un’estetica anch’essa agonizzante come il mondo di cui parla Damien-Turturro.
Domanda aperta per animatori/spettatori che tirano tardi fuori dalla sala…
È molto simbolico e affascinante questo incontro tra una donna che ha paura della morte e una donna che non ne ha. Eppure. Rimane un dubbio: Ingrid è vittima di un piano perfettamente orchestrato? Ripercorriamo la sceneggiatura. Stella in coda alla presentazione del libro si premura di avvisarla della malattia di Martha che a sua volta lentamente attira la donna a sé sempre più. Passano sempre più tempo assieme. Dubbio: quando Stella vede Ingrid aveva già detto di no alla richiesta di Martha? Sempre Martha procura in modo preventivo le pillole a Ingrid per rilassarsi. La obbliga inoltre, inconsapevolmente, a fare le prove generali della fine lasciando distrattamente la porta chiusa. Ancora: Martha ha davvero dimenticato il frutto del “dark web” o vuole soltanto permetterle di frugare nella sua biografia perché lei possa scrivere in futuro?
Complice la musica e qualche scena un po’ troppo telefonata verso l’eredità di Bergman (la sovrapposizione tra le due donne) non sappiamo alla fin fine a quale film dobbiamo aderire come spettatori: ad una storia sincera che si compone un po’ alla volta o a quella decisa fin dall’inizio e orchestrata con una manipolazione travestita da amicizia ed empatia. In termini morali Ingrid vivrebbe, in tal senso, due esperienze completamente diverse: dovremmo confrontarci se è vista come uno strumento o come una persona. Interrogare il film fino a sfinirlo è sempre pericoloso, ma ci consente anche di indagare l’ambiguità della nostra umanità e fino a dove possono arrivare i nostri desideri. Anche tutto questo vive sullo schermo ma anche nella realtà.
Ultima riflessione per gli animatori che culturalmente si interessano anche a quello che succede fuori dal cinema
Complici le dichiarazioni nette e volutamente politiche del regista su un tema di sfondo che sappiamo essere molto divisivo, sono fioccati gli articoli di persone autorevoli, ma che con tutta probabilità non hanno ancora visto il film (bastano anche solo gli avverbi per capire se un film è stato visto o no) che sentono forte la preoccupazione di una narrativa artistica più vocata alla morte che alla vita. Confesso di aver fatto anch’io questo pensiero alla Mostra del Cinema dopo la visione di La stanza accanto, molto probabilmente perché mi aspettavo una drammaturgia più complessa da parte del maestro de La Mancia.
Ho anche pensato letteralmente questo: «Certo che a questi giovani in preda agli attacchi di panico e ansia noi sappiamo solo dirgli che vogliamo morire asciutti e puliti». Che banale che so essere e pure moralistica, eppure è meglio fare i conti con i nostri pensieri a caldo e poi però servire agli altri quelli a freddo che spesso valgono di più. Quindi posso anche capire le preoccupazioni di chi è a casa, faccio più fatica a capire le preoccupazioni di chi i film non li ha ancora visti.
La Venezia 81 della stanza accanto
In realtà chi ha seguito il concorso principale e anche Orizzonti, come ho fatto io e altri animatori culturali di ACEC, ha avuto modo di vedere film di alta qualità davvero orientati al battito della vita (alcuni finiti anche nel podio come The brutalist, Jouer avec le feu, Vermiglio, Familiar Touch, Ainda estou aqui e davvero molti altri ottimi anche se non premiati che presto arriveranno in sala come Mon inséparable).
Quindi con sano spirito di autocritica ho messo via la mia preoccupazione del momento e sono certa che in questa autorevole pluralità di palinsesto ancora una volta le sale della comunità sapranno mettere in scena la tavolozza della vita. Tra questi colori ci saranno anche quelli di Almodovar. E dobbiamo tenerne conto, Martha esiste e chiede ascolto. Ci mette all’angolo con questa domanda: qual è il valore della vita in un malato in fase terminale.
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