Francesco Crispino sul nuovo film di Claudio Giovannesi, qui sotto la videorecensione:
C’è continuità e discontinuità nel quinto lungometraggio di Claudio Giovannesi, che arriva a distanza di cinque anni dal lavoro precedente con il quale si era imposto a livello internazionale. Tra fattori di discontinuità rappresenta una novità, che evidenzia anche una maggiore ambizione discorsiva, il fatto che sia il suo primo film in costume, in quanto la vicenda è ambientata all’inizio degli anni ’70 dopo il prologo collocato alla fine degli anni ‘40. Tra fattori di continuità ci sono invece i temi che informano la filmografia dell’autore fin dagli esordi e che qui ben si amalgamano: a cominciare dall’interesse nei confronti del mondo giovanile — che lo sguardo di Giovannesi ha sempre raccontato con rara sensibilità; e proseguendo con il conflitto con il mondo degli adulti, e in particolare quello dei genitori (tema peraltro già centrale nel lungometraggio d’esordio). E finendo con incorniciarli in un territorio che rappresenta il nuovo centro d’interesse di un’opera in continua evoluzione, tale da rendere Hey Joe una sorta di secondo capitolo su Napoli e le sue enormi contraddizioni.
Tutti aspetti importanti nella collocazione all’interno della filmografia, così come altrettanto importanti – come sempre d’altronde nel cinema del regista de La paranza dei bambini – sono i riferimenti letterari che costituiscono il nucleo ispirativo, qui presenti sia nei romanzi esplicitamente citati dallo stesso Giovannesi (The gallery di Norman Lewis, Naples ’44 di John Burns e La pelle di Curzio Malaparte), sia in quelli indiretti che gravano con maggiore o minore evidenza sulla narrazione — quelli di Raffaele La Capria e di Ermanno Rea in particolare. Tuttavia dietro alla vicenda di Hey Joe, leggenda metropolitana fuoriuscita direttamente dai vicoli dei Quartieri spagnoli, e di cui fu protagonista un ex-militare americano che scelse di tornare a Napoli dopo oltre vent’anni per conoscere il figlio di cui non immaginava nemmeno l’esistenza, si cela un ben più articolato discorso sull’Identità. E che da Napoli, territorio emblematico poiché è quello che ha maggiormente sofferto l’occupazione statunitense postbellica, sconfina in zone più ampie, per irradiarsi a tutti quei territori dove figli cresciuti senza padri sono costretti a fare i conti con la loro assenza.
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