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LOCARNO 2023: UN PALMARES POLITICO
Pardo d’oro al film iraniano “Critical Zone”, miglior regia alla cineasta ucraina Maryna Vroda

Ha una connotazione propriamente politica il palmares del Festival del cinema di Locarno 2023, che premia nel concorso internazionale con il Pardo d’oro il film iraniano “Critical Zone” di Ali Ahmadzadeh, e per la miglior regia “Stephne” della cineasta ucraina Maryna Vroda, riservando al vincitore “morale” di questa edizione, che ha incrociato le preferenze di critica e pubblico, il Premio speciale della giuria, andato al nuovo lavoro dell’irriverente autore romeno Radu Jude “Do not expect too much from the end of the world”. L’Italia, in concorso e fuori concorso, ha presentato film centrati sulle relazioni dolorose, che attraversano spazio e tempo, letteratura e generi cinematografici. Dalla traduzione dell’Otello shakesperiano in dialetto romano di Edoardo Leo in “Non sono quello che sono” alla trasposizione sul grande schermo del romanzo di Pavese “La bella estate” di Laura Lucchetti, dal degrado morale degli anni Novanta in “Rossosperanza” di Annarita Zambrano all’attrazione disfunzionale tra i due ragazzi borderline di “Patagonia”, opera prima di Simone Bozzelli, a cui fa eco la coppia di giovani vampiri nell’horror “Mimì, il principe delle tenebre” del figlio d’arte Brando De Sica.

Da sempre culla di cinematografie marginali rispetto al mainstream, coraggiose nei territori tematici e propulsive nell’innovare estetiche, linguaggi e forme visive, il Festival di Locarno quest’anno si è fatto anche portavoce di contesti produttivi difficili, costringendo lo sguardo dello spettatore a prendere una posizione comunitaria e sociale, prima che sul proprio personale punto di vista. Così di Ali Ahmadzadeh si deve considerare: il coraggio di filmare dall’automobile per evitare i controlli di polizia, l’atto di denuncia della sua macchina da presa verso la crisi umana nelle notti di Teheran, la rappresentazione di una gioventù (reale) che cerca l’evasione con l’uso di droga. “Critical Zone” diventa quindi un moto di ribellione alle censure dell’Iran, da cui toglie il velo, come lo tolgono oggi le donne in segno di protesta. “Stephne” invece tratta, attraverso il particolare, ovvero la storia di un uomo al capezzale della madre morente, il tema più generale, sotteso alla guerra in Ucraina, della scomparsa, della perdita e della separazione da quanto è prezioso. Maryna Vroda, nel ritirare il premio, ha ricordato tutti i registi suoi connazionali, che hanno riposto la cinepresa per imbracciare un fucile, a riprova del messaggio sociopolitico della storia raccontata.

È un’opera-mondo sulla visione cinematografica della Storia della Romania e della vita dei rumeni (ma non solo)Do not expect too much from the end of the world” di Radu Jude, che intreccia tre livelli narrativi e visivi: la ricerca di una casting director per un testimonial contro gli incidenti sul lavoro (filmata in bianco e nero), le scene di un film anni Sessata sugli amori di una taxista a Bucarest, e le stories di Instagram postate dalla protagonista. Le ipocrisie delle multinazionali “schiaviste”, il dilagare di un progresso incurante della spiritualità, la vacuità di una narrazione social completamente svincolata dalla verità, dialogano mirabilmente in un tutto che è più della somma delle singole parti. Lo spettatore è costantemente chiamato in causa da citazioni sagaci e malcelati appelli alla sua coscienza, complice e vittima di un mondo senza etica e senza religione, votato più all’apparire che all’essere. Apparire nell’era del suo impero, capace di dare concretezza all’inesistente. Si auspica presto una distribuzione italiana per un film destinato a diventare un cult movie, sicuramente adatto al circuito delle Sale della Comunità.

L’uscita nei cinema italiani invece è imminente, il 24 agosto, per “La bella estate” (fuori concorso) e “Rossosperanza” (in concorso), firme femminili su due diverse forme di resistenza adolescenziale, all’oppressione fascista la prima, all’edonismo di fine Novecento la seconda. Laura Lucchetti assorbe del romanzo di Pavese la strada verso l’emancipazione di una giovane donna, Ginia (Yile Yara), che cuce frange di autenticità nella scoperta del sesso, attraverso la sua alter ego Amelia (Deva Cassel), bella, disinibita e soprattutto libera. Annarita Zambrano invece imputa il disagio esistenziale di un gruppo di giovani in una comunità di recupero, alle loro famiglie ricche, al sogno berlusconiano del self made man, e ad una società che perde la bussola ammaliata dalle ninfette di “Non è la Rai”. Peccati a cui “Rossosperanza” dedica una punizione esemplare, configurantesi, per ciascun caso, come una legge del contrappasso, con risonanze da “La grande bellezza” a “Parasite”.

Uno scavo alle radici delle dinamiche psicologiche perverse che muovono al femminicidio è operata da Edoardo Leo in “Non sono quello che sono” (fuori concorso), con un doppio salto metatestuale, traducendo di suo pugno e letteralmente ogni parola dell’Otello di Shakespeare in romano, e trasponendo la vicenda negli ambienti malavitosi del litorale laziale a inizi 2000. Il tutto per denunciare la mancata evoluzione della cultura maschilista e razzista che nutre le violenze domestiche, nei secoli dei secoli. Di altra natura, ma altrettanto perverse, sono le dinamiche che legano i due protagonisti di “Patagonia” (in concorso) di Simone Bozzelli, che ha ricevuto il Premio della Giuria Ecumenica e a cui abbiamo dedicato una recensione su questo sito. Tra il fantasy e lo splatter infine c’è “Mimì, principe delle tenebre” (fuori concorso), favola nera di Brando De Sica sul bisogno di amore come forma di riconoscimento. Un sentimento che non può essere possibile nel mondo reale tra un ragazzo con piedi deformi e una ragazza che soffre di allucinazioni, può esserlo invece se i due si trasformano in vampiri, sublimando la propria diversità grazie ad un nuovo canale di corrispondenze. Perché l’amore è come il cinema, ci trasforma e ci offre inediti spazi di comprensione verso l’altro e verso noi stessi, sperimentando incontri, definendo emozioni, e generando nuove prospettive, dal buio della sala alla luce del giorno.

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Sull'autore

Elena Grassi

Laureata in Scienze delle comunicazione all’Università di Trieste, ha conseguito il master in Educazione audiovisiva e multimediale e il Dottorato di Ricerca in Scienze Pedagogiche all’Università di Padova. Giornalista e critico cinematografico, lavora da educatore audiovisivo per enti pubblici e privati ed è consulente per l’Acec del progetto Junior Cinema.