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LONGLEGS (Osgood Perkins)
La bambola del Diavolo

 

Oregon, anni ’90: il neo-agente dell’FBI Lee Harker viene assegnata a un caso irrisolto su un serial killer che da venticinque anni terrorizza la zona massacrando intere famiglie. Appena inizia a occuparsene le indagini prendono subito una svolta inaspettata e occulta. Harker scopre anche un legame personale con l’assassino e deve cercare di fermarlo prima che colpisca di nuovo.

Dopo aver diretto già tre horror non memorabili benché non privi d’interesse (February-The Blackcoat’s Daughter, 2015; I Am the Pretty Thing That Lives in the House, 2016; Gretel & Hansel, 2020), anche il quarto lungometraggio dell’ex-attore e illustre figlio d’arte Osgood “Oz” Perkins — è figlio di Anthony, il celebre protagonista di Psycho, e nipote di Osgood, attore della Hollywood classica — si iscrive nello stesso genere. Tuttavia Longlegs sembra avere un altro passo rispetto ai lavori precedenti, nonché tutte le caratteristiche del film-svolta della sua filmografia. Non tanto perché si è rivelato come una delle grandi sorprese del recente botteghino USA, registrando il maggior incasso dell’ultimo decennio per un horror indie, quanto perché qui l’autore newyorchese  sembra aver trovato il giusto equilibrio tra la sua scrittura minimale — informata da un’evidente fascinazione nei confronti della fiaba, della narrazione religiosa e quella cinematografica di matrice pop — e la sua messa in forma audiovisiva.

Il medesimo giusto equilibrio che si ritrova nel mescolare i temi che lo ossessionano — come nei suoi primi due lavori, anche qui torna centrale quello della famiglia come unità deviante e nociva —, con le ambientazioni periferiche e liminari che fanno loro da sfondo, la dimensione simbolica che assumono le abitazioni e gli oggetti che vi si trovano, la predisposizione verso i personaggi femminili e le figure retoriche tipiche del genere. Proprio l’utilizzo della figura-principe del giallo/thriller/horror, ovvero la soggettiva, risulta qui assai interessante, laddove l’assegnazione di un punto di vista a oggetti che ne dovrebbero essere privi (le bambole di porcellana costruite a mano da Longlegs), non è solo un elemento che intende sfruttare la narrazione pop che esplicitamente evoca, ma anche quello intorno al quale si dispiega la vertigine autoreferenziale che la attraversa, permettendole di accedere a un livello ulteriore. Quello dove il film diviene riflessione sullo sguardo, sul suo ambiguo statuto, e di conseguenza sul cinema stesso, strumento in grado di accedere al simbolico attraverso il diabolico, e viceversa — dicotomia peraltro già perfettamente iscritta nelle loro opposte etimologie (syn-ballein = “mettere insieme” e dia-ballein = “separare”).

L’aspetto puramente teorico e discorsivo operato dal film però probabilmente non basterebbe a elevarlo se esso non fosse corredato da efficaci scelte formali, come la seducente colonna sonora (con Get it on, il brano dei T. Rex che dà avvio alla narrazione, capace di divenirne l’elemento trascinante), la brumosa fotografia nella quale si riflettono sia le asperità del territorio sia la dimensione mentale di chi lo abita, e una doppia prova d’attore di assoluto rilievo. Quella di Nicolas Cage, nel make-up del quale appare evidente il riferimento a Marilyn Manson, probabilmente trova qui una delle sue interpretazioni più incisive degli ultimi anni, che ha dalla propria anche una memorabile uscita di scena; e quella di Maika Monroe, sorta di “True detective” capace di restituire le inquietudini, le fragilità e gli “shining” del proprio personaggio attraverso un registro espressivo che si esalta nell’utilizzo delle sottrazioni e dalle stasi.

 

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Sull'autore

Francesco Crispino

Francesco Crispino è docente di cinema, film-maker e scrittore. Tra le sue opere i documentari Linee d'ombra (2007) e Quadri espansi (2013), il saggio Alle origini di Gomorra (2010) e il romanzo La peggio gioventù (2016).

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