La recensione di Megalopolis a cura di Anna Maria Pasetti.
Tutto e il contrario di tutto. La follia e la filosofia, l’utopia e la distopia, la tragedia e la commedia. La crisi della coscienza e la dittatura del capitalismo. La decadenza dell’impero romano e dunque di quello americano, con l’unica salvezza possibile nella famiglia. Questa la sintesi estrema di Megalopolis, il progetto riscritto 300 volte nell’arco di 40 anni, probabilmente il più ambizioso di Francis Ford Coppola, che torna a concorrere a Cannes dopo 45 anni e due Palme d’oro.
Ambientato in un futuro distopico e in una Manhattan travestita di romanità e quindi ribattezzata New Rome, Megalopolis è un oggetto monstre che esplode di forma barocca e contenuti potenti, andando a rielaborare tanto i temi cari al grande cineasta americano, quanto a formulare una riflessione etica, estetica e metaforica sulla contemporaneità attraverso il passato e i futuri possibili dell’umanità, diventando così sia un manifesto politico-filosofico sia il proprio testamento artistico, umano e spirituale.
Opera-mondo, Megalopolis è in breve il racconto di una sfida tra il Bene e il Male rappresentati rispettivamente da un architetto geniale che ha inventato un materiale eco-rivoluzionario chiamato Megalon, e il sindaco della città, la cui figlia è però sentimentalmente legata al primo. Attorno ruotano un vecchio banchiere, la sua avida e giovane moglie, il nipote assetato di potere. Perché in fondo è il potere, alimentato dal dio denaro, il cuore di ogni lotta oggi ancor più di sempre, specie in quell’America che ne ha fatto il proprio vessillo riducendosi a nazione cinica e decadente.
Coppola la osserva partendo dalle proprie origini italiane, mescolando i generi del cinema, che peraltro omaggia citando colleghi amati come Welles e Hitchcock tra i vari, ma appellandosi anche alla forza tragica di Shakespeare, alla sacralità della bibbia, alla saggezza di Marco Aurelio. Transitando freneticamente dal dramma politico alla commedia, dal thriller all’opera rock, dalla fantascienza al melò famigliare, passando per il peplum, il burlesque, il circense, il regista di Apocalypse Now manifesta l’urgenza di riempire ogni minuto dei 138 della durata del film, portando insomma gli spettatori non solo dentro a uno show di puro cinema dalle mille intuizioni visionarie alternate a esagerate cadute nel kitsch, ma addirittura appellandosi a loro come in un dialogo tanto ideale quanto necessario, perché la speranza in un futuro migliore continui a rinascere nelle nostre coscienze.
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