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OSCAR 2021: UN COMMENTO AI PREMI
A "Nomadland" tre statuette, e lo sguardo proiettato sulle minoranze

Uno sguardo proiettato sulle minoranze. E la presa di coscienza sulle derive e le sofferenze della società, di oggi più che di ieri. Lasciando in disparte, stavolta, l’autoanalisi su una ‘fabbrica dei sogni’ celestiale e insieme demoniaca.

Sembrano queste, a caldo, le considerazioni più appropriate dopo il verdetto della 93ª edizione dei premi Oscar, contrassegnata dalla triplice vittoria di Nomadland (miglior film, migliore regia, migliore attrice protagonista, Frances McDormand, alla terza statuetta dopo Fargo e Tre manifesti a Ebbing, Missouri). Una vittoria che viene da lontano, quella del film di Chloé Zhao, dal Leone d’oro conquistato alla Mostra di Venezia lo scorso settembre e da molti altri prestigiosi riconoscimenti raccolti da allora alla Notte delle stelle del 25 aprile, a cui fa da contrappeso la sconfitta di Mank, dieci nominations alla vigilia: per il gioiello purissimo firmato David Fincher, che non sfigura affatto di fronte a Quarto potere, il capolavoro del 1941 di Orson Welles di cui ricostruisce la genesi e con il quale viaggia in parallelo anche dal punto di vista stilistico ed estetico, due soli Oscar ‘tecnici’ (fotografia e scenografia).

In fondo, nessuna sorpresa. Nell’anno della pandemia, della perdita planetaria di ogni certezza acquisita e delle tante crisi aperte, anche valoriali, nel mondo occidentale, un esito perfettamente coerente: segnato da sconfitte e dolori, ma alimentato, come linfa vitale, da consapevolezza e solidarietà, Nomadland, nella sua ricognizione esistenziale e sociale sul nomadismo odierno negli States, si propone come il ritratto di un Paese, della sua cultura e delle sue slabbrature. Una fotografia, e insieme un monito, sullo smarrimento individuale generato da una dissoluzione collettiva, al quale Frances McDormand, a bordo di un furgone in viaggio nelle immense strade dell’America, attribuisce verità e dignità.

Come non premiare, dunque, in questo tempo così lacerante, un film dal valore testamentario, propagatore di preziosi semi di resistenza e resilienza? Il segnale, insomma, è forte e chiaro. Una ‘prevedibilità’, al di là dei (tanti) meriti oggettivi di Nomadland, forse eccessiva nel terzo premio assegnato, quello per la miglior regia alla trentanovenne cinese di formazione statunitense (seconda donna nella storia dell’Academy, dopo Kathryn Bigelow, e prima in assoluto di origini asiatiche), che profuma più di politically correct che di raffinata maestria. A discapito, magari, proprio del David Fincher di Mank

D’altronde, il riverbero mediatico hollywoodiano degli Oscar 2021 ha privilegiato, sul piano del riflesso civile, una cronologia narrativa contemporanea (Una donna promettente di Emerald Fennell, migliore sceneggiatura originale), relegando in secondo piano quei titoli, di cui non pochi di matrice black, che, sparsi nelle varie categorie, hanno riportato a galla un passato ‘interno’ scomodo e talvolta brutale: da Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin (incentrato sulla violenta repressione delle proteste avvenute durante la convention democratica di Chicago del 1968) a Judas and the Black Messiah di Shaka King (sull’uccisione da parte dell’Fbi, nel 1969, del leader delle Pantere nere Fred Hampton, interpretato da Daniel Kaluuya, statuetta al miglior attore non protagonista), da Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe (sull’omonima cantante blues degli anni ’20, per il quale erano in lizza l’intensa Viola Davis e il prematuramente scomparso Chadwick Boseman) a The United States vs. Billie Holiday di Lee Daniels (un’altra celebre cantante di colore, stavolta leggenda del jazz, interpretata da Andra Day, in gara come attrice protagonista), senza dimenticare il notevole One Night in Miami di Regina King (ambientato nel 1964, con Cassius Clay, campione del mondo dei pesi massimi, a festeggiare la vittoria in una stanza d’albergo insieme ai suoi amici più intimi: Malcolm X, Sam Cooke e Jim Brown).

Il tema della condizione afroamericana, affrontato dai film citati in chiave storica ma con inevitabili riflessi sull’attualità, legati al processo per l’uccisione di George Floyd, è entrato solo parzialmente nella vetrina luccicante degli Oscar 2021. Con Nomadland, invece, l’Academy ha voluto accendere i riflettori sulla ‘giusta distanza’ dal (falso?) mito dell’american way of life. Accogliendo e facendo propria, per la seconda volta di fila dopo il trionfo dello scorso anno di Parasite del sudcoreano Bong Joon-ho, un’idea di ‘meticciato cinematografico’ senza frontiere e steccati, rilanciata quest’anno anche dalla presenza di Minari di Lee Isaac Chung (nato in Colorado da genitori sudcoreani), storia autobiografica lucida e tenera ricompensata dal premio a Yoon Yeo-jeong quale miglior attrice non protagonista.

L’ultima riflessione riunisce proprio Nomadland e Parasite: hanno sbancato agli Oscar dopo aver vinto, rispettivamente, Leone d’oro e Palma d’oro, al pari di altri titoli negli anni precedenti (Joker, Roma, La forma dell’acqua), confermando così l’osmosi tra i più importanti festival internazionali (Venezia e Cannes, non tanto Berlino, più elitario) e il massimo riconoscimento mondiale dell’industria cinematografica. Un legame sempre più virtuoso, quello tra ricerca artistica festivaliera e ribalta popolar-planetaria. Capace di unire, al meglio, autorialità e spettacolarità. E di tramutarsi, nel buio ultracentenario di una sala, in puro piacere per lo spettatore.

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.