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CORPUS CHRISTI (Jan Komasa)
L'approfondimento di Arianna Prevedello

Erika Di Marino ha scritto un libro, apparentemente per bambini poiché illustrato, molto intenso su cosa successe nei boschi delle Dolomiti a causa della tempesta del 2018, denominata poi “Vaia”, che interessò di fatto anche altre fasce montane. Ebbene, cosa c’entra il libro Le Dolomiti dopo la tempesta con il film Corpus Christi del regista polacco Jan Komasa? La dinamica al centro del film mi ha ricordato appieno quella narrata nel libro: una rete sotterranea di radici che si rompe all’improvviso, lasciando cadere giù le anime della comunità e lasciando dietro di sé un’atmosfera senza speranza. Nel libro si tratta delle migliaia di ettari di conifere delle foreste alpine; nel film si tratta della comunità di un paesino dove un incidente stradale tra membri dello stesso piccolo borgo porta via con sé per sempre un adulto e diversi giovani lasciando nello strazio del dolore (e del rancore) tante famiglie.

L’autrice del libro racconta ciò che succede nel bosco in uno scenario che sembra apparentemente privo di vita per sempre, ma che in realtà non lo è totalmente. Dedica pagine intere a narrare quali sono i piccoli animali, quasi invisibili, che con la loro operatività riportano un lento ma progressivo futuro nel bosco. La comunità delle persone come nel film ha, invece, delle regole più complesse: è abitata da emozioni, sentimenti e razionalità – tutti messi in scena con attenzione, serietà e competenza da Corpus Christi – che sembrano rendere impossibile una rinascita. Le ferite a morte hanno creato feritoie da dove appostarsi per sparare al nemico (o a colui al quale imputiamo incautamente questo ruolo) che ha procurato tanto dolore e la perdita per sempre di coloro che amiamo.

Fatta eccezione per l’inizio e la fine del film, entrambi ambientati in carcere e segnati da un profondo senso di disperazione, sconforto e sfiducia nei confronti del sistema carcerario, Jan Komasa e il suo sceneggiatore Mateusz Pacewitz concentrano le loro energie artistiche proprio su questo tipo di nodo da sciogliere: un contesto comunitario bisognoso di una giustizia riparativa che sappia ricreare quella rete di radici sotterranee che consentono di rimanere in piedi, di vivere in armonia tra esseri umani. Per attuarlo insieme scelgono il linguaggio più popolare della Polonia: si servono della religione, da un lato per metterla in discussione nelle sue ombre e dall’altro per metterne in luce le possibilità “miracolose”, capaci di guarire esistenze alla deriva e altre segnate da lutti non elaborati. Tornare a respirare, a splendere, a colorarsi come accade nella natura ma con la tavolozza di tutte le emozioni, il vaglio della coscienza, le forze dell’intelligenza e le risorse dei nostri sentimenti: questo è davvero il miracolo che è richiesto alle persone di questo paesino imbalsamate nel loro dolore e in una religione asfittica che, invece, di coltivare la “rivoluzione” che Cristo porta nella lettura e nella risoluzione delle vicende umane, produce piuttosto silenzi colpevoli o un clima omertoso e pigro.

Giovani e vecchi sono tutti addormentati in questo cercare il colpevole, seppur già morto pure lui, ma capace di prendere su di sé tutte le energie di rabbia di chi rimane e che andrebbero invece convogliate verso una sana e coraggiosa elaborazione. In tal senso il parroco è di poco aiuto perché anche lui si è perso nella tristezza di una vita senz’anima, senza luce. Accanto a una lettura ecclesiale, politica ed educativa della stessa Polonia, in Corpus Christi emerge la voglia di raccontare una storia universale, oltre le sue strette geografie dell’Europa dell’Est, capace di portare domande inedite all’esperienza religiosa. Disseminate qua e là lungo il film esse squarciano panorami non così scontati. Perché preghiamo? Perché entriamo in chiesa? Perché lì e non da un’altra parte? Cosa significa perdonare? Cosa significa amare? Sono tutte domande che rimandano a parole fondamentali del Vangelo: preghiera, tempio, amore e perdono. Su di esse si è posata tanta polvere come è naturale che sia nell’ordine delle cose. Come è successo anche in questo paesino polacco dove è passata una tempesta “Vaia”, ma dove arriva anche per miracolo un piccolo insignificante “insetto” che attiva un processo vitale in un bosco di fantasmi.

Daniel è davvero l’ultimo degli ultimi, colui dal quale nessuno si aspetterebbe di certo la capacità di smuovere le coscienze, di portare pace dove c’è solo desiderio di offesa e separazione. Daniel è colui che ha già agito il male nel suo passato, ma è anche colui che conosce l’ombra del carcere, luogo che difficilmente riesce a “riformare” la persona. Eppure egli non è solo questo, è ambiguità come ciascuno di noi. Daniel è il giovane che si illumina ascoltando le parole del cappellano in prigione, è colui che preparando il “setting” della liturgia e cantando il salmo di Davide sente davvero di riposare su pascoli erbosi. Fotografia e regia si accordano per farci sentire che emozione prova nel pregare cantando il salmo 23.

“Davanti a me – recita sempre lo stesso salmo, ma il film non arriva fino a questa strofa – tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici”. Non siamo qui per pregare meccanicamente, dice infatti il cappellano, ma chissà quanti preti non solo in Polonia hanno pronunciato queste parole per tutta la vita, quasi come un’operazione ripetitiva, senza mai sentire la liberazione profonda che da esse può percepire un personaggio come Daniel. Non a caso egli vorrebbe uscire di prigione non per lavorare alla falegnameria come gli viene chiesto ma per studiare da prete. La sua fedina è troppo sporca anche per entrare in seminario. Eppure il desiderio di diventare prete è così forte, in realtà, da generare un equivoco che gli offre la possibilità di vivere la vocazione – falsamente solo per i documenti – almeno per un breve periodo che nel film diviene una parabola sulla salvezza. Ne nasce una sorta di rilettura odierna del mistero di Cristo che Daniel vivifica con la sua fede che traspare come dono gratuito giunto in una vita che non aveva affatto le giuste premesse per accoglierlo e per riconoscerlo.

Inizialmente Daniel svolge le mansioni del prete imitando quanto ha vissuto accanto al cappellano del carcere. Con il passare del tempo e vivendo autenticamente ciò che la vita da presbitero gli porta incontro (le disarmonie della comunità, la benedizione dei morenti, i conflitti nelle famiglie, le imperfezioni che le persone consegnano in confessionale), da lui iniziano a sgorgare pensieri e gesti inediti come una fonte dissetante. Da persona che ha trovato pace nelle parole del suo pastore, nei suoi pascoli erbosi, si trasforma in un pastore per gli altri. Non si può credere e pregare soltanto con le parole altrui: o meglio, possiamo farlo come Daniel per un po’, ma poi una spiritualità cristiana sincera chiede di essere incarnata negli abissi e nelle viscere della persona. E chi salva la sua anima dalla vera falsità – il grande tema che sottende a tutta la vicenda è, infatti, cosa sia davvero la verità –, mette in salvo anche quella di tante altre persone: Daniel con il suo coraggio di essere di aiuto al dolore di tutti, anche dei presunti “colpevoli”, diviene vera imitazione di Gesù, “sacerdote di Cristo” come aveva detto il cappellano in carcere.

Daniel concede pene leggere come un giro in bicicletta perché ne ha conosciute di peggiori e perché non sappiamo quale sia stato il vuoto che l’ha portato a trasgredire le regole che, invece, difende parlando della sua vocazione ai giovani. E se è pur vero, come dice il prete malconcio del paesino, che la confessione non risolve nulla, è altrettanto vero che essa smuove la polvere che proprio la pratica di una confessione meccanica porta con sé.

Usando tutto il meglio del cinema, anche il piano sequenza, Corpus Christi porta a desiderare la verità per la propria esistenza, vibra per la sua caparbietà nel voler mostrare una ristretta finestra di vita in cui è possibile per il protagonista toccarla e attraversarla, sentirsi uomo e sentirsi se stesso, essere di sostegno al prossimo, vivere virtù come la giustizia e la fortezza. Ciò è stato possibile grazie al dono della fede che Daniel, inconsapevolmente, sentiva in sé. In tutto ciò non vi è nulla di falso, di artificioso, di dubbio. Nemmeno il momento d’amore vissuto con la giovane Eliza, frutto di un percorso di riconciliazione così profondo da portare i due ragazzi anche all’esperienza dei sensi dentro a una rara tenerezza per entrambi. Cos’è la verità è una sfida evangelica mai risolta che il film consegna con quella tonaca che cade a terra lasciando che il tatuaggio della Madonna più famosa della Polonia, impresso sulla schiena di Daniel, guardi il Figlio in croce, esperienza che poco dopo ritornerà a pesare di nuovo nella vita del ragazzo. Una conclusione tremenda, per niente poetica quella che seguirà, ma che ci ricorda che il cristianesimo è una religione fatta di preghiere ma anche e soprattutto di gesti per salvare a tutti i costi ogni persona dall’inferno in terra, tanto che esso si chiami “Lesbo”, tanto che si chiami “carcere polacco”. Quel “tu non sei mai stato qui” che il cappellano impone a Daniel lo consegna ad un destino che forse nemmeno la fede dovrebbe lenire. Credere in Cristo, nel film Corpus Christi, è un’esperienza autentica e anticonformista che guarisce il mondo e non lo condanna alla disperazione.

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Sull'autore

Arianna Prevedello

Scrittrice e consulente, opera come animatore culturale per Sale della Comunità circoli e associazioni in ambito educativo e pastorale. Esperta di comunicazione e formazione, ha lavorato per molti anni ai progetti di pastorale della comunicazione della diocesi di Padova e come programmista al Servizio Assistenza Sale. È stata vicepresidente Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) di cui è attualmente responsabile per l’area pastorale.