Non si parla mai di film con il personale e i volontari delle sale della comunità. Tutto quello che accade sullo schermo è la storia di qualcun altro, appartiene ad altre vite, ad altri viaggi. Avevamo lasciato la storia della sala della comunità di Appiano Gentile a un’epoca in cui il cinema era ancora muto, grazie all’istinto da segugio di Luigi Arrighini, che aveva estratto per noi dagli archivi parrocchiali due documenti storici – risalenti all’inizio del secolo – relativi alla prima licenza per l’inizio dell’attività. All’epoca la sala era materialmente un’altra, situata in un edificio non più esistente, e aveva una struttura diversa, meno moderna ma più elegante, comprendente anche la galleria oltre alla platea. La sala cinematografica che vediamo oggi è il risultato di tanti avvicendamenti e ristrutturazioni. La storia dei luoghi s’intreccia a quella della memoria e, con un balzo di quarant’anni, andiamo a esplorare i ricordi diretti di chi aveva vissuto “attorno alla sala” con l’entusiasmo dell’adolescenza.
Nei ricordi di Luigi il cinema, inteso come arte cinematografica, è secondario. Dopotutto solo a partire dal 2003, con la ristrutturazione della sala, la messa a norma e la digitalizzazione dell’impianto (Luigi mi chiede di ricordare i coniugi appianesi Clelia e Paolo Parenti, il cui generoso lascito ha coperto le spese), inizia a esserci una programmazione stabile. Negli anni Sessanta, complice la presenza in paese di un’altra sala cinematografica – il Cinema Astra –, la peculiarità del Cineteatro San Francesco era di avere una vitalità plurima, legata più che altro alle diverse iniziative culturali della parrocchia e dell’oratorio, che cambiavano anche in base ai parroci e alle iniziative dei diversi coadiutori. Da un punto di vista economico, infatti, il cinema sarebbe stato in perdita se materialmente non fosse stato adattato per altri scopi, come sala polifunzionale. Vecchi tempi. Le sedie erano ancora in legno (ma nessuno si è mai lamentato della scomodità) e il contenitore era usato spesso dai genitori dei bambini degli asili, che organizzavano spettacolini per Carnevale o per Natale. Ogni tanto la scena era calcata da compagnie teatrali più serie (o “mica da ridere”, come precisa Luigi) e i film c’erano solo il sabato e la domenica. Quando nel 1976 l’oratorio fu rifatto e modernizzato, di film se ne vedevano ancora pochi, meno di una volta alla settimana.
Eppure quei favolosi anni Sessanta, con pochissime lire e il cinema solo nel week end, fu fondamentale per creare prima l’affiatamento tra coloro che sarebbero diventati poi i volontari della sala della comunità, e poi l’affezione di questi ragazzi a un luogo, e ai diversi sacerdoti che con cuore e passione lo guidavano. Niente ha così tanta importanza nelle nostre vite come aspettare febbrilmente il venerdì sera a quindici, sedici anni. Questi giovani che frequentavano l’oratorio – racconta Luigi – decisero di dedicarsi al cinema solo come a una delle tante possibilità. Il desiderio iniziale era semplicemente quello di stare insieme: si andava di fianco alla parrocchia a casa del vicario (don Pietro Pantoni, ad Appiano Gentile dal 1901 al 1964) e si prendevano le chiavi della sala. Niente di più che un semplice rito settimanale, che però nell’euforia dell’adolescenza – e nel ricordo di un’epoca che non c’è già più – può assumere connotazioni epiche. Da lì in poi ci si divideva le mansioni: c’era chi spazzava per terra, chi portava in giro le locandine del film in programma e chi montava la pellicola. Terminati i compiti, si riportavano le chiavi al sacerdote, infilate nella cassetta della posta, perché magari si era fatto tardi. Così ci si preparava al sabato del villaggio.
Valeva, insomma, più quel rituale da ripetere tutte le volte, con l’attesa di quando ci si sarebbe incontrati, e poi le risate e gli scherzi, che il cinema vero e proprio. La passione poi è nata, ma attraverso l’oratorio e lo spirito di servizio che vi si respirava. Persone come Luigi sono finite a lavorare in una sala della comunità perché vivevano già una comunione con altri. I ragazzi crescevano ma c’era chi aveva aperto loro la strada. Si restava, cioè, affascinati dalla dedizione messa in quell’opera da qualche ragazzo più grande e poi, senza accorgersene, si finiva in una saletta di proiezione, a manovrare i macchinari e a maneggiare la celluloide. La chiamata di ciascuno passa attraverso l’incontro con uno sguardo diverso da tutti gli altri. Deve essere stato così per quei pescatori galilei duemila anni fa, quando i loro animi appisolati furono risvegliati da una richiesta. Così nella provincia comasca nel primo pomeriggio di un giorno di cinquant’anni fa: “C’è qualcuno che vuole dare una mano per il cinema?”. Si sollevarono le mani, e poi anche i cuori.
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