La recensione di Simone Agnetti di Quiet Life, presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia.
Stupisce gli spettatori del Lido scoprire l’esistenza della “Sindrome della rassegnazione infantile”, fenomeno che colpisce i figli di persone immigrate da zone di guerra o di violenza. A portare sullo schermo questo fenomeno è il regista greco Alexandros Avranas, già vincitore con Miss Violence (2013) del Leone d’Argento per la regia e della Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile (Themis Panou). Avranas è in concorso nella sezione Orizzonti con Quiet life. Come nel precedente film premiato a Venezia, il regista mantiene la famiglia come luogo della narrazione, spazio umano dentro il quale le azioni di ciascuno pesano sull’esistenza egli altri. Il cerchio magico presenta al suo interno numerose fessure e crepe dalle quali emergono le criticità che mettono a rischio l’unità famigliare.
Svezia, 2018. Natalia e Sergei (Chulpan Khamatova, Grigory Dobrygin) sono stati costretti a fuggire dalla Russia dopo un attacco della polizia che ha quasi ucciso Sergei. In attesa che l’Agenzia Nazionale per l’Immigrazione decida sulla loro domanda d’asilo, con le loro due bambine fanno del loro meglio per condurre una vita normale. Lavorano, mandano le figlie alla scuola svedese, imparano la lingua, accettano l’ospitalità in case pubbliche, si sottopongono ai controlli degli ispettori che desiderano vedere queste nuove persone incasellate nel perfetto ordine domestico.
Vediamo la famiglia sforzarsi di entrare nella forma che vige solo nelle pubblicità edulcorate del più famoso mobilificio svedese. Abbandonata la violenza fisica data dalla scelta di Sergei di opporsi alla mancanza di democrazia in madre patria, ora subiscono la violenza psicologica degli obblighi imposti dallo stato ospitante. Le bambine vivono con sofferenza e apprensione quanto sta accadendo, desiderose di normalizzare la loro vita e essere accettate come nuove cittadine.
Com’è Quiet Life?
Quando la loro richiesta d’asilo viene respinta, Katja, la figlia più piccola, ha un collasso ed entra in un misterioso stato di coma vegetativo. Inizia un percorso di cura che è una sfida di sopravvivenza. Anche nel sistema sanitario la vita delle persone deve sottostare all’architrave dell’esteriorità decisa a tavolino, apparentemente perfetta, con pratiche medico-psicologiche imposte e non condivise con i genitori. Il risveglio della bambina diventa una ipotesi lontana di cui la famiglia non deve più occuparsi. Anche altri bambini in coma per lo stesso motivo subiscono gli stessi trattamenti. Ogni violazione porta conseguenza sempre peggiori per la famiglia.
Lo stato di trauma psichico definito Child Resignation Syndrome (Sindrome della rassegnazione infantile) fu riconosciuto proprio in Svezia nel 1990 negli immigrati dai paesi sovietici e slavi. Quiet Life ha il pregio di aver trattato l’argomento. Il regista sceglie una forma narrativa e visiva che pone in forte contrasto la vivacità intellettuale e il desiderio di giustizia di questi nuovi immigrati con la mancanza di umanità degli ospitanti, non interessati agli accadimenti di questi rifugiati politici, quanto al fatto che tutto proceda secondo la burocrazia.
Se per buona parte del film questo gioco regge, sul finale, quando il sistema si rompe e la famiglia trova una via d’uscita, c’è qualche imprecisione e incertezza registica che fa storcere il naso, di fronte ad un film dal contenuto molto interessante.