La recensione di Simone Agnetti di Pooja, Sir, presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia.
Stereotipi e pregiudizi nel moderno Nepal sono lo sfondo su cui si basa la bella pellicola del regista Deepak Rauniyar, autore, con la moglie Asha Magrati, che è anche l’attrice protagonista del film, di Pooja, Sir, in concorso in Orizzonti a Venezia 81. Ispirato agli eventi accaduti nel Nepal meridionale durante le proteste razziali del 2015, il film ci porta a conoscenza degli attriti tra nepalesi e l’etnia madhesi, popolazione di cultura indiana e dalla pelle più scura rispetto agli abitanti del Nord e di Katmandu.
Il regista appartiene a questa etnia e negli anni ha subito le stesse discriminazioni che vediamo nel film. La giovane repubblica, nata nel 2008 dopo la fine della monarchia a causa di continue rivolte, attraversa il processo costituente e di unità nazionale, che porta ad inevitabili scontri derivati dalle minoranze etniche e religiose che desiderano autonomia.
Il film muove da un fatto di cronaca, due ragazzi vengono rapiti in una città di confine con l’India, uno dei due è il figlio di un politico locale. Il regista unisce momenti di riprese cinematografiche delle proteste dal vero, con la fiction girata negli stessi luoghi. L’ispettrice di polizia Pooja viene inviata dalla capitale per risolvere il caso e ritrovare i bambini. Lascia a casa la sua compagna a custodire l’anziano padre malato. Al suo arrivo al confine i crescenti disordini e le violente proteste la mettono a conoscenza delle dinamiche sociali di quelle zone. A sostenere il suo lavoro c’è Mamata, una giovane agente di polizia locale di etnia madhesi.
Mettendo da parte la discriminazione razziale sistemica e ignorando la diffusa misoginia (per non parlare dei pregiudizi vero l’evidente mascolinità della protagonista), le donne fanno rete per poter risolvere il caso.
La regia è salda e si mantiene su un linguaggio internazionale che rende la pellicola molto attraente, è sia un buon film poliziesco, sia uno spaccato della emergente repubblica asiatica. Dice al riguardo il regista – la scelta del genere poliziesco per raccontare questa storia consente al pubblico di esplorare il lato oscuro della comunità madhesi attraverso gli occhi di una detective di pelle chiara. Credo nel potere del cinema di aiutarci a comprendere le nostre comuni difficoltà e le nostre esperienze di vita e di morte.
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