Venticinque dopo un disastro ambientale che ha reso la Terra inabitabile, una famiglia composta da una madre, un padre e un figlio nato dopo l’evento apocalittico si aggrappano a una sorta di normalità mentre vivono isolati nel loro enorme bunker in un’enorme miniera di sale insieme ad altre tre persone che si sono salvate insieme a loro. Quando si presenta una ragazza, con un passato e idee proprie, il cieco ottimismo della famiglia comincia a scemare.
È un curioso oggetto da decifrare il terzo lungometraggio di Joshua Oppenheimer, che torna dietro la macchina da presa a distanza di un decennio dal suo precedente lavoro. Lo è innanzitutto perché The end segna il suo esordio nel cinema di finzione, dopo il magnifico dittico documentario dedicato al genocidio compiuto in Indonesia a metà anni ’60 dal generale Suharto (The act of Killing, 2012, The Look of Silence, 2014). Ma anche e soprattutto perché per questo “nuovo esordio” sceglie una vicenda ambientata in un futuro post-apocalittico (benché da noi non troppo lontano) declinandola in un’insolito prodotto definito dalla contaminazione tra sci-fi e musical destinato a sorprendere chi lega il nome del regista a un’idea di “cinema del reale” che qui viene completamente eclissata. Un deciso ribaltamento di orizzonte che tuttavia non appare giovare al regista anglo-americano, in quanto The end sembra tradire l’ottimo spunto iniziale con una serie di scelte che ne inficiano l’esito finale. A cominciare da una scrittura ridondante che non trova il giusto equilibrio drammaturgico , di fatto rendendo poco incisive le scelte di messinscena, alcune delle quali peraltro assai pregevoli – in particolare quelle legate allo spazio della rappresentazione, definito in parte da una miniera di sale (la location è quella di Raffo, situata in una frazione di Petralia Soprana in Sicilia), in parte dalla ricostruzione in studio dell’abitazione dei protagonisti, due spazi significanti che esaltano il lavoro della scenografa Jette Lehmann. Così come non appare efficace l’assemblamento del cast, convincente nei ruoli dei due personaggi più giovani (interpretati da George McKay e Moses Ingram), meno in quelli degli adulti (Michael Shannon e, soprattutto, Tilda Swinton, non sempre a suo agio nel proprio ruolo di ex-ballerina, soprattutto quando si misura nell’act of singing). Tuttavia ciò che appare esiziale al progetto è l’inserimento delle canzoni – scritte dallo stesso Oppenheimer e musicate da Joshua Schmidt (compositore al proprio esordio nel cinema) -, la cui esecuzione, più spesso recitata che cantata, finisce per sclerotizzare la drammaturgia invece che dinamizzarla.
Riflessione sui residui della dimensione claustrale imposta dal COVID – il soggetto iniziale è del 2021, proprio all’acme del lockdown – e sulla distanza/separazione che ha generato tra la generazione degli adulti (richiusa in se stessa, incapace di ri-aprirsi a un mondo profondamente cambiato) e quella dei giovani (ontologicamente alla ricerca di nuovi orizzonti), The end si rivela come un progetto ambizioso ma incapace di trovare la giusta misura espressiva. Che purtroppo va in direzione contraria all’essenzialità e alla chirurgica drammaturgia dei film precedenti del regista.
Regia Joshua Oppenheimer
Con Tilda Swinton, George McKay, Michael Shannon, Moses Ingram
Danimarca/Germania 2024
Durata 149’
GUARDA ANCHE: