Un film come Vera, di Tizza Covi e Rainer Frimmel, presentato nella sezione Orizzonti, apre domande e riflessioni sul cinema e sui suoi limiti. Vera è la figlia di Giuliano Gemma, lo è veramente sia nel film, sia nella vita reale. Vive di espedienti offerti dall’essere nata nella Roma bene, nell’agio di una famiglia ricca e sotto l’architrave di un padre famoso e bello. Si mantiene grazie al patrimonio di famiglia e a qualche lavoro nello spettacolo. La noia e la mancanza di un orizzonte di senso la rendono un essere solo e vagabondo, sballottato tra relazioni fatte solo di apparenza. Quando, in un incidente automobilistico in una zona di periferia, ferisce un bambino di otto anni, inizia con lui e con suo padre un’intensa relazione. Anche loro vivono di espedienti, piccoli lavori e truffe. Vera ne viene travolta. Nella vita ha delle amicizie più profonde, una è la figlia di Dario Argento, Asia, con cui condivide il disagio di essere “la figlia di”, il timore di essere ricordate un domani solo per questo legame di sangue; l’altra è un trans con cui condivide il desiderio estetico di avere un corpo chirurgico e perfezionato.
Il film si gioca su tutto questo, sull’aspetto esteriore di un viso talmente rifatto che non riesce più ad avere espressione, sulle relazioni in cui il centro è il denaro, dal giovane toyboy che Vera frequenta alla famiglia di periferia, che incontra casualmente. Vera si lascia travolgere dai fatti, non li governa, non possiede la forza di reagire, subisce e mantiene la schiena dritta, gli abiti eccentrici e il volto insepressivo, in ogni situazione.
I registi indagano i limiti del cinema, mostrano come fosse una docu-fiction la vera vita della protagonista, concedendo molto alla trama e ai fatti narrati, che sono totalmente inventati. Vediamo inedite pellicole 8 mm di Giuliano Gemma, ripreso in filmini di famiglia, proseguendo il gioco della visione tra ciò che è reale e ciò che non lo è: anche Gemma, nei filmini, non è ripreso spontaneamente, ma recita se stesso, si mette in posa, mostra il suo essere attore, non il suo ruolo di padre. I due registi hanno realizzato un lavoro originale e fuori dagli schemi, nel quale il gioco della finzione è sempre evidente, anche nei momenti di maggiore trasporto nei fatti narrati. Tutto il cast recita su questa linea che divide la vita reale dalla fiction, in un equilibrio che spesso pone nello spettatore la domanda “cosa sto guardando?”, che si risolve nel proseguire della visione del film.