Alessandro Cinquegrani recensisce Why War di Amos Gitai.
«C’è un modo di liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?», a chiederlo è Albert Einstein a Sigmund Freud nel 1932. La definiva «La domanda più urgente tra tutte quelle che si pongono alla civiltà». Era quasi un secolo fa, le conoscenze umane stavano rivoluzionando il mondo e i due interlocutori erano tra i massimi fautori di questi grandi cambiamenti del sapere. È passato quasi un secolo da quei giorni, un secolo di grandi trasformazioni e di enormi progressi scientifici e tecnologici, ma le domande sembrano essere le stesse. E forse anche le risposte. Perché allora quella di Freud fu articolata ma per lo più negativa, perché l’uomo a suo dire è spinto al contempo da un principio di vita e da uno di morte allo stesso modo. La guerra e l’autodistruzione appaiono dunque innate e non per questo però meno condannabili.
Su questo dialogo a distanza si fonda Why War dell’apprezzatissimo regista israeliano Amos Gitai, già molto noto alla Mostra del Cinema di Venezia. Ovviamente in Israele questi temi sono di drammatica attualità, ma Gitai decide di risalire al cuore del problema. E mentre inquadra le cerimonie in ricordo delle persone scomparse in questo infinito conflitto israelopalestinese, analizza la guerra come archetipo, come istinto inestirpabile, che senza trascurare il presente, si faccia ragionamento più ampio.
I ritmi sono lenti, il film è tutto parlato, con inquadrature spesso fisse, i personaggi sono volutamente fittizi, i due protagonisti sono delle maschere di loro stessi, che spesso parlano in sala trucco. Inutile fingere una narrazione: si tratta di un film filosofico, una denuncia non tanto di natura politica – anche se il film è inviso al governo israeliano – quanto sulla natura umana. Così la quotidianità diventa impossibile, una donna vive il dramma da lontano, non riesce a sopportare l’idea che una guerra senza fine continui a dilaniare la sua terra, senza che nessuno riesca a porre fine a questa spirale di violenza e di reciproche vendette.
È un’opera che non dà risposte, ma pone solo domande, a partire però dalla certezza che la guerra non deve mai essere una soluzione possibile e che se anche il nostro istinto innato è autodistruttivo, l’uomo non è solo istinto. È ragione, intelligenza, etica. Sia pure con una rappresentazione che non cela la sua dimensione finzionale, il regista vuole spogliare la verità di retorica e affermare che la guerra va condannata a prescindere dalle responsabilità dei singoli, dei popoli o dei governi.
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