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Alla ricerca della verità

La ricerca della verità attraversa, nelle sue stesse radici costitutive, il mestiere del giornalista. La restituzione dei fatti, la ricostruzione degli eventi, la cronaca delle vicende sono, prima ancora del commento ad una notizia, i fondamenti dell’informazione, la sua matrice distintiva. La verità, dunque, come criterio assoluto da rispettare e come traguardo da raggiungere, più o meno come per un investigatore o un magistrato. Ma se la ricerca della verità prende la strada della finzione cinematografica, quale attendibilità è garantita allo spettatore? Come regolare, sul grande schermo, un rapporto così profondo e articolato come quello tra inchiesta giornalistica e racconto filmico?

Il caso Spotlight

Non c’è dubbio che la maggior parte delle pellicole dedicate a editoriali e scoop, redazioni e “mezzibusti” provenga dagli Stati Uniti. «Lo schiacciante predominio delle produzioni americane deriva, evidentemente, dal ruolo fondamentale rivestito dalla stampa nella vita sociale del Nuovo Continente», scrivono Alberto Barbera, Paolo Bertetto e Sara Cortellazzo nella prefazione di Professione reporter (Lindau, 1995). E proprio dagli Usa sono arrivati di recente due lungometraggi che mettendo in immagini casi già consegnati alla memoria, hanno offerto un ulteriore, significativo contributo alla ricerca (cinematografica) della verità: Il caso Spotlight e Truth (non a caso sottotitolato Il prezzo della verità).

Il primo, sceneggiato e diretto da Tom McCarthy (già autore de L’ospite inatteso), fresco vincitore degli Oscar per il miglior film e per la migliore sceneggiatura originale, rievoca con puntiglio cronachistico e rigore narrativo anti-spettacolare la storia del team di giornalisti investigativi del Boston Globe chiamato per l’appunto Spotlight, che a partire dal gennaio 2002 pubblicò una serie di articoli sugli abusi sessuali commessi su minori da parte di oltre 70 sacerdoti locali, in un’inchiesta premiata con il Pulitzer l’anno successivo. Insabbiamenti, depistaggi, rimozioni: sotto la lente d’ingrandimento dei quattro reporter del Boston Globe (interpretati con estrema efficacia da Michael Keaton, Rachel McAdams, Mark Ruffalo e Brian d’Arcy James), guidati dal neodirettore Marty Baron (Liev Schreiber) emerge un fenomeno ben più esteso di quanto si potesse immaginare all’inizio, che portò, dopo lunghi colloqui con l’avvocato delle vittime e le vittime stesse, ormai adulte, e dopo l’accesso agli atti giudiziari secretati, a scoprire le ombre complici di chi, come l’allora arcivescovo di Boston, cardinale Law, cercò di salvare la fede di molti nascondendo le gravi colpe di alcuni.

Un film e non un documentario

Nel portare a galla lo scandalo che travolse la diocesi di Boston (249 sacerdoti, alla fine, accusati pubblicamente di pedofilia) Il caso Spotlight non mette comunque in campo degli “eroi” a senso unico dell’informazione. Anzi, mostrando come il materiale che avrebbe potuto far luce sulla vicenda fosse già stato consegnato anni prima alla redazione del Globe, rimanendo invece a prender polvere sugli scaffali, il film di McCarthy rievoca timori, compromessi e sottovalutazioni anche tra le scrivanie delle alte sfere del quotidiano statunitense. Resta il fatto che, come ha scritto l’ex direttore del giornale, Marty Baron, ora al Washington Post, «è giusto ricordare che Il caso Spotlight è un film e non un documentario. Rispecchia fedelmente le grandi linee dell’inchiesta del Globe, ma non è un racconto stenografico di ogni conversazione o incontro. La vita non può essere trasposta fedelmente in un film di due ore, per quanto realizzato in maniera scrupolosa, che deve introdurre personaggi, questioni e temi importanti in maniera coerente». E come ha scritto Alessandro Zaccuri su Avvenire, ne Il caso Spotlight «non si fa cenno, per esempio, alle linee guida sugli abusi sessuali del clero che la Conferenza episcopale statunitense aveva promulgato già nel 1992 e che molte diocesi avevano prontamente applicato».

Concentrandosi sulla “meccanica” del réportage del team del Globe e chiudendosi con la pubblicazione del primo articolo, la pellicola di McCarthy non lascia traccia, dunque, dell’intransigenza con cui la Chiesa di papa Benedetto XVI e poi di papa Francesco ha combattuto e condannato il fenomeno della pedofilia, né si ricorda allo spettatore, come scrive ancora Zaccuri, di quella «Conferenza di Dallas che nel 2002 stabilì la linea di ‘tolleranza zero’ dell’episcopato Usa nei confronti dei crimini sessuali del clero».

Truth, l’informazione affamata di verità

Anche Truth mette in scena una ricerca della verità che attinge da fatti realmente accaduti, arretrando le vicende un po’ più avanti de Il caso Spotlight, ossia nel 2005, quando Dan Rather, famoso anchorman del network televisivo Cbs, rassegnò le sue dimissioni in seguito alla controversia esplosa dopo la messa in onda di un servizio che metteva in discussione l’appartenenza dell’allora presidente George W. Bush alla Guardia nazionale aerea durante la guerra nel Vietnam.

Alla sua prima regia, lo sceneggiatore James Vanderbilt (già autore dello script di Zodiac, diretto da David Fincher) fa leva su un copione solido e persuasivo, seguendo il filo della migliore tradizione del cinema hollywoodiano incentrato sul confronto serrato tra politica e giornalismo, rivelando con una certa nostalgia, come nel film di McCarthy, i “ferri del mestiere” di una professione profondamente mutata con l’arrivo di Internet e del citizen journalism. Scandito dalle interpretazioni di Robert Redford e Cate Blanchett, Truth, al pari de Il caso Spotlight, non brilla per regia pirotecnica ed enfasi narrativa, prediligendo invece un’esposizione piana e lineare delle vicende. Ricorrendo talvolta a qualche semplificazione eccessiva ma riportando in superficie un’idea di informazione coraggiosa e almeno all’apparenza indipendente, affamata di scoop e appassionata nella sua ricerca di verità.

Il labirinto del silenzio, sul “secondo processo di Auschwitz”

Anche Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli indaga sul passato. Un passato che porta lo spettatore nella Germania occidentale del 1958, quando la “guerra fredda” tra i blocchi dominanti, Stati Uniti e Unione Sovietica, vive momenti difficili e in Germania Johann Radmann, da poco nominato pubblico ministero, ascolta la confessione di un giornalista che avrebbe riconosciuto in un insegnante di scuola elementare una ex guardia di Auschwitz. La possibilità di perseguirlo legalmente resta tuttavia senza seguito, dunque Radmann decide di proseguire la ricerca da solo. Aprendo un capitolo di storia inedito e sconvolgente noto come “il secondo processo di Auschwitz”.

Puntando lo sguardo su ieri per spiegare meglio l’oggi, il film dell’italiano Ricciarelli, nato a Milano ma tedesco di formazione, rievoca anche in questo caso una pagina di storia sconosciuta ai più, l’apertura di una vera e propria causa legale contro i reduci dai campi di sterminio, coloro che, in quel momento volti anonimi tra la folla, anni prima avevano invece servito con piena omologazione il nazismo, accettandone le atrocità. Le bugie, le ritrosie e le diffidenze sono anche ne Il labirinto del silenzio il canale di passaggio obbligato che conduce ad una verità faticosa e dolorosa, dove le parole e le testimonianze, prima ancora delle immagini che dividono le vittime dai carnefici, sono la raffigurazione delle laceranti ferite di un popolo.

 

(questo articolo di PAOLO PERRONE è stato pubblicato nel n.2/16 della rivista SdC – Sale della Comunità)

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.