La madre di Virginia Eleuteri Serpieri si suicidò gettandosi nel fiume. Una notte al rientro a casa, la regista non la trovò, uscì a cercarla sapendo che non trovarla avrebbe significato perderla per sempre. Ma non la trovò. Dopo alcuni anni di attività documentaristica, la regista decide di affrontare ora questo punto cruciale e tragico della propria vita. Ma decide di farlo senza cercare di ricostruire la storia della madre, l’evoluzione della sua depressione, e nemmeno il proprio dolore, piuttosto porta sullo schermo un diario intimo, in cui cerca un dialogo con la madre scomparsa, vede immagini della sua vita, trasfigura la sua esperienza in una favola non vissuta.
Amor è davvero una Roma rovesciata, un pianeta onirico dove l’amore e l’armonia trionfano, e forse la morte non esiste. Di Roma restano frammenti sconnessi, immagini che non ricompongono un disegno complessivo. La città vera è sempre altrove, vicina ma imprendibile, separata da un muro invisibile. E poi c’è il Tevere, l’acqua che dà la vita e tutto ricopre di un alone di morte. Il Tevere allegro dove si faceva il bagno, il Tevere implacabile che investe tutto con le sue piene. Ci sono le fotografie d’epoca, ma c’è anche un’attrice che interpreta la madre, sia pure in visioni improvvise – la madre ricoperta d’acqua, la madre di fronte al fiume, la madre in quel mondo perfetto di Amor.
La regista rifugge ogni patetismo, la voce narrante sembra curiosa come una bambina, a volte dà persino – rischiosamente – la parola alla madre stessa che si rivolge ai figli, ma tutto rimane avvolto in un alone stupefatto e magico, ovattato, capace di fare i conti col dolore massimo senza piegarsi. Anche quando la figlia allude al proprio senso di colpa – avrei potuto fare di più? Avrei potuto trovarla quella notte? Avrei dovuto cercare un’altra cura per lei? – non c’è autocommiserazione o pietismo, non è tv del dolore, è piuttosto un piccolissimo, dolente e coraggioso canto poetico.