Assalto è il cielo è l’enfatico titolo che Francesco Munzi, già apprezzato regista di Anime nere, dà al suo film, che in realtà è un assemblaggio di scene di repertorio girate nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, nel tempo delle rivolte studentesche e della sinistra extraparlamentare. Nient’altro che un assemblaggio, dunque, senza alcun intervento autoriale, se non la divisione in tre movimenti, come se fosse una partitura musicale.
L’esito è onesto, equidistante, esterno anche se curioso e appassionato, ma nulla aggiunge a quanto è già notissimo e rappresentatissimo di quel periodo. I documenti, infatti, nulla aggiungono sia ai fatti sia alla situazione emotiva che si viveva in quell’epoca. Sembra piuttosto un omaggio intimo, privato, ma, proprio in quanto tale, quando viene portato alla Mostra del cinema e esposto al pubblico perde molto del suo significato. È quasi materiale di lavoro, grazie al quale un regista cerca l’ispirazione emotiva per andare oltre. L’ostentazione lo depotenzia, ne attenua il significato. Lo spettatore cerca un significato che non trova, tra le tante inchieste, le tante ricostruzioni, alle quali è abituato, questo grado zero del documentario non trova più collocazione ma non è ancora avanguardia. Resta qualche momento di rabbia e paura, qualche sorriso per l’ingenuità di alcuni passaggi, qualche lacrima di fronte a morti sprecate. Ma è troppo poco per un cinema che si vorrebbe ancora grande in un festival come questo.