Mentre alla Biennale d’Arte il padiglione della Polonia, realizzato da Małgorzata Mirga-Tas, fa pace con la componente zingara della sua popolazione, proponendo una installazione di arazzi patchwork che ripropone scene di vita e di mito del popolo rom (peraltro seguendo la forma dei cicli di affreschi astrologici dei saloni quattrocenteschi italiani), a pochi centinaia di metri, al festival del Cinema il regista polacco Damian Kocur, con il suo Chleb i sòl, mostra quanta strada debba ancora fare il suo paese nella direzione dell’integrazione e quanto questa sia necessaria.
Chleb i sòl (Pane e sale) è un film tratto da una storia vera ed è recitato da un gruppo di giovani attori non professionisti. Tra questi Tymek, un giovane e talentuoso pianista, iscritto al Conservatorio di Varsavia e prossimo a partire per la Germania. Il ragazzo torna per una vacanza nella sua città natale, un centro urbano di anonimi palazzoni, per incontrare la madre, il fratello e gli amici d’infanzia. Da poco ha aperto un kebab con due giovani lavoratori arabi che non conoscono bene il polacco, ma parlano inglese. Il gruppo di giovani del luogo lo elegge a punto d’incontro per le serate. Ma solo Tymek cerca di tendere la mano ai due stranieri, tutti gli altri giovani li bersagliano d’insulti e di scherzi.
Eppure seiste un punto di contatto tra le due culture, quella polacca e quella araba, che condividono l’usanza del pane e sale: per la prima un ancestrale segno di benvenuto, per la seconda il modo in cui dare ospitalità allo straniero.
Il ragazzo sperimenta il disagio della piccolezza e del senso di vuoto che vivono i suoi compagni, continuando a interrogarli sulle loro scelte future. Tymek fatica ad entrare in sintonia con un gruppo dedito al bere e al fumo, che vaga in cerca di qualcosa da fare e che dia senso alla giornata. Ha molti dubbi, non sa se stare con loro, se accettare l’esplicita amicizia di una ragazza, se spingere sul fratello perché migliori al pianoforte, se cercare un contatto maggiore con la madre, quasi del tutto assente. Ha solo una sicurezza, la sua carriera da pianista, lontano dal cordone ombelicale, ormai marcio, del suo villaggio nativo.
La musica per pianoforte, in particolare Chopin, si mescola al freestyle dei giovani che improvvisano versi su basi al cellulare, in una colonna sonora duale e esistenziale. Da una parte un serio e profondo accorgimento di cosa è la vita, dall’altro un fraseggio superficiale come ogni cosa in quel luogo. Quando la tensione tra i giovani e i due arabi sale, la tragedia è inevitabile, la stupidità porta alla violenza e la violenza al sangue. Molto interessante la forma scelta dal giovane regista che, per quasi tutto il film, predilige inquadrature lunghe e fisse entro la cui misura la scena accade con precisione, per poi concedersi l’uso dell’inquadratura delle telecamere di sicurezza, sgranate e frammentate, per descrivere la violenta scena conclusiva.