C’è una tendenza delle cinematografie nazionali europee a identificarsi con un genere piuttosto che con un altro. Da questo punto di vista l’uso della metafora horror nel cinema francese è un problema non del tutto risolto. En attendant la nuit, film in concorso Orizzonti a Venezia di Céline Rouzet, fa il paio con un film precedente Les revenants (Robin Campillo, 2004). Nel caso qui preso in esame vediamo un film horror sul vampirismo con un taglio da dramma medicale, in quello di vent’anni fa affrontavamo gli zombie in luce sindacale. In entrambi i casi avviene un inceppo di sceneggiatura nel momento in cui la mostruosità si impiglia nei meccanismi di una burocrazia. Il fattore dell’iter dieviene l’argomento di alcuni snodi della trama, snaturando i principi di paura dell’horror. Nel film zombie di Campillo il meccanismo si inceppava di fronte al problema di come ri-occupare i deceduti che tornavano in vita (il regista avrebbe poi recuperato vincendo con il bel film Eastern Boys nel 2013). Nel film di Rouzet la questione è come procurarsi legalmente le sacche di sangue per nutrire, tramite un accesso venoso periferico, il giovane succhiasangue.
Sugli adolescenti-vampiri e sulle fantasiose soluzioni adottate dalle loro famiglie, abbiamo abbondante cinematografia e narrativa: cambiare spesso città, vivere in luoghi piovosi o con fitte foreste ombrose, innamorarsi di persone disposte a condividere la propria natura mostruosa. Con questo film non si aggiunge nulla di nuovo. Siamo ben lontani dall’horror classico e lontanissimi dalle metafore adolescenziali-horror rivisitate da Guadagnino nei suoi ultimi film.
La famiglia Feral vorrebbe apparire il più normale possibile, il primogenito Philemon non è un adolescente come gli altri, appena nato azzannò il seno della madre per estrarre sangue al posto del latte. La madre continua a nutrirlo col suo sangue tramite trasfusione, mentre la sorellina non manifesta nessun problema. Giunti nella nuova casa in un ombroso villaggio di montagna, tutto sembra perfetto per evitare al ragazzo l’esposizione diretta ai raggi solari e poter procurare con facilità sacche di sangue dal centro prelievi del paese. Philemon incontra la bella Camila e i suoi amici. Nessuno di loro si chiede perché in piena estate, il nuovo arrivato vesta tutto di nero senza lasciare scoperto altro che il viso e le mani. La risposta sta nel fatto che viene dalla Bretagna, e questo ai suoi coeatanei basta. Tutto funziona finché alcuni errori nel protocollo di prelievo del sangue svelano la sua natura mostruosa alla gente del paese.
La regista ha preso spunto da alcuni fatti dramamtici accaduti nella sua famiglia per scrivere il soggetto, cercando di sviluppare i temi della marginalità e del conformismo, visualizzando i sacrifici familiari in questa metafora, in particolare nel rapporto madre-figlio, e i sentimenti inespressi dell’ordinaria vita occidentale, spesso intollerante verso la diversità. L’esito è una tragica storia romantica tra adolescenti in una comunità chiusa.