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IL CORPO DELLE DONNE
Chiavi di lettura di alcuni film presentati a Venezia 78

La 78a Mostra del cinema – la seconda in tempo di pandemia – ha consegnato una carrellata di storie nelle quali emergono alcune tendenze comuni. Si tratta di ricorrenze, codici quasi ridondanti che segnalano al pubblico un’urgenza rappresentativa sentita dagli autori (sceneggiatori e registi). Una di queste è senz’altro il corpo della donna, non tanto o non solo come questione femminile, ma proprio la sua carne come sede di possesso, di spartizione, di prevaricazione e perfino di regolamento di conti millenari. Di film in film quello delle donne ritorna come un corpo abusato, violato, interrotto che non trova spazi di pace e di dignità, in un tragico parallelismo con le cronache odierne.

Succede a Nadia nella Trieste di La ragazza ha volato diretto da Wilma Labate e scritto con i cineasti D’Innocenzo, i fratelli prodigio de La terra dell’abbastanza, Favolacce e ora America Latina. Anche La ragazza ha volato potrebbe essere una favolaccia visto che la giovanissima protagonista, una studentessa dell’alberghiero, passa in un sol boccone dalla solitudine dei gratta e vinci allo stupro mai confessato a casa di un ragazzo fintamente gentile. La regista si attarda, come faranno anche altri autori della Mostra, nello spazio-tempo della violenza, affidando il nostro sguardo al pianto senza via d’uscita di Nadia, braccata da un lupo senz’anima.

Attorniata da una famiglia senza particolari risorse interiori, Nadia affronta nel silenzio la violazione del suo corpo, non considerando nemmeno la possibilità di verbalizzare l’accaduto, consegnando invece ai genitori la gravidanza conseguente come uno sprovveduto accadimento di giovinezza. Un corpo, quindi, che viene abitato da altro da sé senza permesso e che viene accettato come tale senza nessun ricorso alla giustizia.

La violazione succede irrimediabilmente anche alla novizia protagonista di Miracol, film rumeno sorprendente, presentato nella sezione Orizzonti. Nel rientro verso il convento, dopo una visita in ospedale, Cristina viene violentata da un tassista che contestualmente la percuoterà così tanto da ridurla in fin di vita. Anche il regista Bogdan George Apetri sceglie di soffermarsi sulle coordinate spazio-temporali dello stupro, scelta similare a quella di Labate, nell’inferno della geografia sensibile del femminile, una terra promessa che non arriva mai abbastanza e che non viene violata solo dal possesso indebito.

 

Le forme della violenza

Emblematico in tal senso, allora, è anche Amira, diretto e scritto dall’egiziano Mohamed Diab che ci porta a conoscenza dell’inseminazione di contrabbando di donne palestinesi con lo sperma di connazionali, prigionieri a vita nelle carceri israeliane. La giovane protagonista Amira è il frutto di questa generatività artificiale, purtroppo ulteriormente manomessa a insaputa della coppia a distanza da un carceriere israeliano. La vera identità di Amira si viene a conoscere soltanto perché la madre riceve la proposta in carcere dal compagno Nawar, un eroe per i palestinesi, di avere un altro figlio, un’ipotesi che si rivelerà di fatto impossibile per la sua sterilità.

Il seme trafugato anni prima si rivela non di Nawar, ma soprattutto non di quel mondo per il quale Amira rappresenta un trofeo di libertà e di continuità oltre le sbarre del carcere, un simbolo di lotta e resistenza. All’improvviso Amira diventa, invece, la controparte, la rappresentazione del male infiltrato in casa propria nel modo più viscerale, del corpo di donna sfregiato con il DNA del nemico.

La donna diviene l’arena suo malgrado di uno scontro eterno, carne ferita di uno stupro senza un evidente reato per Warda, la madre di Amira, pronta a dichiararsi adultera piuttosto che rovinare la vita alla figlia. Il corpo di Warda, così come quello di Amira, diviene un migrante senza patria, una terra di nessuno governata da forze politiche e maschili dirompenti che pongono lo spettatore di fronte alla cognizione del dolore e del male. La giovane di Amira viene prima rifiutata da chi l’aveva ideata con l’inseminazione trafugata e poi freddata dal fuoco amico di chi l’ha messa al mondo con l’inganno.

La giovane Cristina di Miracol muore (forse) in un letto d’ospedale dopo giorni d’agonia, per giunta gravida di un bambino concepito extra convento con un uomo sposato, il quale seguirà dopo lo stupro le indagini senza mai dichiarare il suo conflitto d’interessi. Seppure inizialmente emarginata anche in famiglia, almeno Nadia, la giovane di La ragazza ha volato, partorirà il suo piccolo aprendosi a una vita migliore e andando contro la volontà di suo padre che vorrebbe sistemare in fretta la gravidanza indesiderata.

La bellezza di partecipare a un festival cinematografico sta proprio in questa possibilità di confrontarsi con opere completamente diverse tra loro ma che portano lo spettatore a intrattenere una conversazione ideale sullo stesso tema: sono corpi di donna quelli governati dagli uomini? È davvero un corpo di donna quello dove lei non decide nulla? Di chi è alla fin fine quel corpo?

Da tre storie profondamente diverse arrivano le medesime domande amplificate anche dal traumatizzante La scelta di Anne (L’événement), l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Annie Ernaux, diretto da Audrey Diwan, sceneggiatrice, giornalista e scrittrice francese. La seconda regia di Diwan, che si è aggiudicata il Leone d’Oro, porta lo spettatore a confrontarsi con il destino agghiacciante di una giovane donna che si misura con l’esperienza dell’aborto clandestino nella Francia degli anni Sessanta.

L’unico desiderio della protagonista Anne è di proseguire i propri studi senza distrazioni o interruzioni. A separarla da questo traguardo la penna di Diwan, che letteralmente nel film diventa quella della studentessa, frappone le angoscianti settimane di ritardo del ciclo che la ragazza segna metodicamente nell’agenda. Anne è diligente nello studio quanto intraprendente nel voler scoprire l’universo della sessualità come piacere slegato dai sentimenti e dalla coniugalità.

Nella Anne di Diwan non alberga nessuna intenzionalità materna, come capita, invece, per la Nadia di Labate. Per quest’ultima diventare mamma è il battesimo di una vita meno apatica, un volo che non aveva messo in conto ma da cui si lascia stupire. Le due registe dipingono la reazione di due ragazze di fronte allo stesso evento ma con due differenze che pesano sulla trama morale delle opere: Anne non può scegliere se interrompere o meno la gravidanza ma ha le idee, invece, molto chiare sul suo futuro e i suoi progetti; Nadia può scegliere se abortire o meno ma paradossalmente non ha, invece, nessuna aspirazione o desiderio sul suo futuro.

In questa discrepanza legislativa ed esistenziale s’intravede l’impossibilità di prescindere dalle condizioni e dalle progettualità della persona coinvolta. Si può obbligare una donna a essere madre? Si può allo stesso modo costringere una donna a interrompere la gravidanza? La ragazza ha volato e L’événement sono due esempi di cinema al femminile che ci obbligano magistralmente a prendere atto della medesima interrogazione da due prospettive differenti, un gioco di sguardi che chiamano in causa la nostra intelligenza emotiva.

 

Maternità e futuro

Anne vuol fare la scrittrice e il suo immaginario è pieno di stelle che portano i nomi di poeti, romanzieri e filosofi. La gravidanza non è scritta nel suo sentire e le impedirebbe d’essere quanto ha sempre sognato per la sua vita. Rischiando la cosiddetta pornografia del dolore, Diwan costringe lo sguardo dello spettatore sugli strumenti e le tecniche dell’aborto clandestino fino a spingersi alla rappresentazione dell’espulsione del feto come forma simbolica, sonora e iconica, di una generatività respinta con drammatica coerenza.

Questa scelta stilistica – secondo la regista – è la via più sincera per incarnare pienamente sullo schermo il calvario che travolge la ragazza abbandonata a se stessa e in preda all’angoscia soffocante delle settimane che passano senza che lei riesca a portare a termine l’interruzione.

Accanto a queste opere caratterizzate da corpi costretti in una sessualità e a una generatività slegata da un’affettività autentica, la Mostra veneziana consegna anche numerosi titoli che accedono ai codici del lessico religioso. Abbiamo già citato il rumeno Miracol che sulla possibilità di questo evento straordinario di salvezza della ragazza, scientificamente non spiegabile, fonda il ravvedimento o meno del co-protagonista che continuamente rimanda, invece, i suoi collaboratori alla laicità della ricostruzione dei fatti.

Val la pena citare anche La santa piccola di Silvia Brunelli: Annaluce, una bambina venerata come santa per aver rimesso in vita un piccione schiantatosi sulla statua della Madonna in processione, e per questo visitata senza tregua dal paese, mette in crisi l’equilibrio di una famiglia già di suo abbastanza disfunzionale. Il continuo pellegrinaggio della comunità locale che foraggia le finanze della famiglia porta il fratello maggiore, finora instancabile patriarca dal quale dipendeva la sussistenza economica familiare, a spingersi sempre più in là nelle sue avventure erotiche. Anche Brunelli insiste con il suo sguardo, talvolta inutilmente, su questi istanti di trascendenza erotica, quasi mai di coppia, portando lo spettatore a interrogarsi sulla consistenza di questi ultimi e al contempo sulla cifra dell’estasi mistica della bambina di fronte alla Madonna.

Ne esce un film a tratti disturbante ma che sa raccontare quanto una religiosità senza autentiche altezze spirituali non sia meno distonica di una sessualità senza sentimenti, in un conflitto tra cielo e terra che pare non trovare soluzione.

Alla lista va infine aggiunto anche il film Imaculat, sempre rumeno, dove il corpo di una ragazza inizialmente sentito quasi come angelico diventa, invece, la scacchiera degli equilibri di potere all’interno di una clinica di riabilitazione dalle tossicodipendenze. Il film, diretto da Monica Stan e George Chiper-Lillemark, si è aggiudicato il Director’s Award delle Giornate degli autori per la capacità dell’opera nel mettere in scena «una società – così recita la motivazione della giuria – in cui le donne sono costrette nella claustrofobia dell’oppressione».

 

Articolo pubblicato anche su Il Regno-attualità, 16-2021

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Sull'autore

Arianna Prevedello

Scrittrice e consulente, opera come animatore culturale per Sale della Comunità circoli e associazioni in ambito educativo e pastorale. Esperta di comunicazione e formazione, ha lavorato per molti anni ai progetti di pastorale della comunicazione della diocesi di Padova e come programmista al Servizio Assistenza Sale. È stata vicepresidente Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) di cui è attualmente responsabile per l’area pastorale.