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INSHALLAH A BOY (Amjad Al Rasheed)
C'è da spostare una macchina

Giordania, 2019. Dopo la morte improvvisa del marito, Nawal si ritrova da sola e con una bambina piccola, costretta a conciliare il lavoro come badante di un’anziana signora con le necessità scolastiche della figlia Nora. Questa nuova situazione viene aggravata dalle richieste del cognato che, approfittando di quanto previsto dalla Sharia, avanza pretese di eredità che prevedono anche l’abitazione dove Nawal e Nora vivono e lo stesso affidamento della piccola. Nawal è costretta così a ricorrere alla menzogna, fingendo una gravidanza per prendere tempo e innescare così la presunzione che possa nascere un figlio maschio, cosa che la tutelerebbe da eventuali pretese ereditarie.

Fin dalla sua applauditissima presentazione alla “Semaine de la critique” di Cannes 2023, l’esordio nel lungometraggio del giordano Amjad Al Rasheed si è segnalato come uno dei più rilevanti dell’intera annata cinematografica. Non solo per il tema che tratta, laddove Inshallah a Boy è interamente costruito sull’immane lotta di una donna per non essere sopraffatta dalla società patriarcale araba contemporanea focalizzandosi sulle inique leggi che riguardano la “proprietà”, quanto per l’inconsueto punto di vista, dal momento che quello maschile del regista sposa — e s’identifica pienamente con — quello della protagonista. Al di là delle possibili letture gender che proprio tale aspetto potrebbe suscitare infatti, va sottolineato come il personaggio Nawal sia il nucleo discorsivo del film nonché il punto di equilibrio tra la giusta distanza dell’istanza narrante e il coinvolgimento emotivo stimolato dalla splendida interpretazione di Mouna Hawa, che qui conferma quanto di buono si era già intravisto in In Between (Libere obbedienti innamorate, 2016) e che è stata giustamente insignita di premi in molti dei festival ai quali il film ha partecipato in tutto il mondo. Proprio la pregevolezza con cui l’attrice palestinese restituisce le oscillazioni emotive, gli umori e i timori, la determinazione e le speranze del proprio personaggio rappresentano infatti il primo e il più evidente dei punti di forza del film.

Il secondo è rappresentato invece da uno script incisivo e millimetrico, capace di smarcarsi sempre con eleganza dalle soluzioni più convenzionali e di rilanciare la narrazione con originalità, ma anche e soprattutto di amalgamare con intelligenza la dimensione narrativa e quella metaforica, come ben dimostra la rilevanza discorsiva assunta dal pick-up appartenuto al marito di Nawal, ma di cui non aveva estinto completamente il debito. Proprio tale oggetto arriva infatti ad assumere una doppia valenza simbolica: da un lato efficace rappresentazione dell’ingombrante peso (del lutto, del debito, dell’assenza, della dimensione patriarcale) vissuto dalla donna sulla propria pelle; dall’altro strumento che ne definisce l’ostinata (e altrimenti incomprensibile) lotta di emancipazione. Perché, proprio come ci insegna l’esperienza dell’Arabia Saudita (non a caso tra i paesi co-produttori del film), imparare a guidare, a dunque a spostarsi in autonomia, può rappresentare un passo decisivo verso un orizzonte meno opprimente.

Regia Amjad Al Rasheed

Con Mouna Hawa (Nawal), Haitham Omari (Rifqi), Yumna Marwan (Lauren), Celina Rababah (Nora)

Giordania/Francia/Arabia Saudita/Qatar, 2023

Durata 116’

 

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Sull'autore

Francesco Crispino

Francesco Crispino è docente di cinema, film-maker e scrittore. Tra le sue opere i documentari Linee d'ombra (2007) e Quadri espansi (2013), il saggio Alle origini di Gomorra (2010) e il romanzo La peggio gioventù (2016).