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MASTER GARDENER (Paul Schrader)
Una storia di colpa e redenzione

Narvel Roth è un appassionato e rigoroso giardiniere nella lussuosa villa di Mrs. Norma Haverhill. Le piante, per lui, non sono solo un lavoro ma rappresentano una vera e propria filosofia di vita. Ma come l’ordine apparente di un giardino si fonda in realtà su un sottobosco marcescente, così l’apparenza ordinata e ordinaria di Marvel nasconde un passato terribilmente turbolento di cui porta i segni sulla pelle. Tutta la prima parte del film è giocata su un sottile equilibrio di elementi che emergono a poco a poco su un ambiente votato alla pace e alla natura. I due personaggi protagonisti, interpretati magistralmente da Joel Egerton e Sigourney Weaver, hanno entrambi qualcosa da nascondere. Sarà l’arrivo di Maya, inquieta pronipote della padrona di casa assunta come apprendista di Narvel, a far esplodere violentemente il passato, i rancori, le violenze.
Nella prima parte sono i dettagli a costruire i personaggi – l’odore della terra quasi respirata, un diario nel quale il protagonista appunta la sua filosofia delle piante, una camminata a piedi nudi – e il passato emerge con rigurgiti improvvisi mai troppo invadenti nella messa in scena. Così i personaggi acquistano spessore e una voluta ambiguità che non li incasella mai. Il giardino è l’elegante pretesto per lo sviluppo dei caratteri, e quasi mai si esce dai suoi confini che proteggono e imprigionano.
Nella seconda parte, invece, il film diventa quasi un road movie nel quale i personaggi devono fare i conti con se stessi e con gli altri. Meno originale e più prevedibile nelle sue svolte, questa seconda metà del film si regge soprattutto sull’efficacia della prima che permette allo spettatore di affezionarsi ai suoi protagonisti, ma perde di potenza. Forse il regista Paul Schrader avrebbe potuto osare di più e non uscire mai da quel giardino cosmo dove si muovevano personaggi terribilmente buoni e mostruosamente cattivi allo stesso tempo. La parabola agrodolce è comunque efficace nella sua narrazione, sostenuta da una regia pulita, al servizio della storia.
Resta qualche dubbio sul finale. Il regista Gravas nella conferenza stampa del suo Athena proiettato qualche giorno fa ha ripetuto più volte che i film non devono lasciare un messaggio, ma sono semplicemente storie: è senz’altro vero. In questo caso però, questa storia di colpa e redenzione sembra costruita esattamente per giungere ad un risvolto morale. Se è così, la morale apparentemente edificante del finale lascia nello spettatore un messaggio dai risvolti etici quanto meno ambigui, su cui riflettere. Ma lo fa volutamente?

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Sull'autore

Alessandro Cinquegrani