Paolo Perrone di Filmcronache recensisce dal festival di Cannes 77 il film in concorso MOTEL DESTINO di Karim Aïnouz.
Ambientato nel Ceará, sulla costa nordorientale del Brasile, dove le temperature toccano i 30 gradi quasi tutto l’anno, l’ottavo lungometraggio di Karim Ainouz è un film sul desiderio fisico e sulla ricerca di libertà. Una passione, divorante e insopprimibile, arroventata dal sole cocente dell’equatore, attraverso la quale un ragazzo di 21 anni, in fuga dalla banda di malviventi per cui lavora dopo l’omicidio di suo fratello, del quale viene ritenuto responsabile, e una donna, sottomessa al marito violento e possessivo, con cui gestisce lo squallido Motel destino che dà il titolo al film, tentano di sottrarsi alle imposizioni di due sistemi di potere, quello criminale e quello patriarcale, richiusi ermeticamente su se stessi.
Dopo il profondo, coinvolgente La vita invisibile di Eurídice Gusmão e il successivo, rigoroso Firebrand, di produzione britannica, il regista brasiliano, tornato a girare nella sua terra d’origine, compone dunque un ritratto a tinte forti di due giovani privati del futuro e della speranza. Un film dalle atmosfere sordide e dai cromatismi accesi, alimentato da una tensione che brucia i corpi e avvolge i pensieri, ma non sostenuto adeguatamente da una sceneggiatura che non riesce ad uscire da una stagnante immobilità drammaturgica.
Se è vero che, nel film, il gioco degli sguardi è sottoposto al filtro delle telecamere a circuito chiuso dell’hotel, emblema di un voyeurismo malato, e se è altrettanto vero che i corridoi e le camere dell’albergo, gabbie di cemento prive di finestre, con le loro atmosfere claustrofobiche appaiono come labirinti della mente, prigioni volontarie in cui il sesso è l’unica forma di contatto, Motel destino, però, indugia con troppa insistenza su ardori carnali e miserie umane, girando su se stesso senza trovare un vero centro di gravità narrativa.
- LEGGI – Anora, la recensione
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