Esistono anche le brave persone, ricordò Furlong a sé stesso mentre tornava in città.
Era solo questione di imparare a gestire tutto quanto e a raggiungere un equilibrio
tra quello che dài e quello che ricevi, in modo da andare d’accordo
con gli altri e non solo con sé stessi.
da “Piccole cose da nulla” di Claire Keegan
Furlong è il protagonista di Piccole cose come queste, la fedele trasposizione curata da Enda Walsh e diretta da Tim Mielants del romanzo irlandese qui citato, edito nel 2021. Nell’inverno del 1985 a New Ross, una cittadina della contea di Wexford, fervono i preparativi per Natale. Continuano senza tregua anche le giornate fredde e umide. Il carbonaio del paese è sotto stress perché nei giorni di festa nessuno vuol trovarsi il gelo a tavola.
Quando il giorno si spegne in questa miriade di ordini Furlong torna a casa dalla moglie Eileen e dalle sue cinque figlie. Prima di raggiungerle in cucina, come un rito religioso, l’uomo imbrattato compie in disparte una meticolosa abluzione che lo sgrava dalla pece. Questo rito, nel film diventa una ricorrenza, è il biglietto da visita di un uomo che, sebbene venga «dal niente, meno di niente», ha comunque imparato una regalità per sé stesso e per la sua famiglia, a cui da buon cattolico non fa mancare nulla. Vite fatte di sobrietà e sulle quali «poi scendeva la notte – come leggiamo nel romanzo – e ancora una volta gelava, e lame di freddo si infilavano sotto le porte tagliando le gambe a chi ancora si inginocchiava a recitare il rosario».
In tante di queste notti Furlong, però, non trovava pace e si piazzava, con una tazza in mano, su una poltrona davanti alla finestra del salotto, lasciando che la vita lo trapassasse. L’attendibilità con cui l’interprete Cillian Murphy, autentico irlandese, veste il maglione e i pantaloni del carbonaio, unita a quella pacatezza inossidabile di chi ogni giorno deve rimettersi in spalla gravosi sacchi e avanzare a piccoli passi per guadagnare il traguardo, fanno di Furlong un personaggio magnetico. Eppure i suoi movimenti sono davvero minimi e trattenuti, le sue parole misurate e mai aggressive: un lavoro di sottrazione che porta il protagonista a risplendere sia nella stanchezza fisica sia nella mitezza d’animo. È una persona che non è abituata a rimuginare sul suo passato – cresciuto da sempre senza padre e presto anche senza madre –, e d’altronde come averne il tempo nella routine massacrante e il pensiero di sei bocche da sfamare.
Eppure alcune notti è solito riflettere su «piccole cose da nulla», come gli spiccioli che ha lasciato per strada al figlio di un alcolista del paese o strane cose che inizia a notare nel convento locale che al suo interno contiene anche una lavanderia. Furlong è un uomo che non si fa notare ma che nota gli altri, è la persona che brilla di nascondimento di sé e al contempo di scoperta dell’altro. E’ colui che non passa oltre, che “sulla Gerusalemme-Gerico” si lascia interpellare (Lc 10, 25-37), come vide fare anche la signora Wilson proprio con lui quando da bambino rimase orfano della mamma, al tempo dipendente nella fattoria della donna.
Piccole cose come queste e il tempo di riflessione
Nella carità si scopre solo. La moglie Eileen, la vicina di casa e ancor più le suore gli dicono tutte, a loro modo, la stessa cosa: girati dall’altra parte; non ti riguarda; attento a non lasciarti invischiare. Furlong, però, è un uomo della soglia. Si ferma, sosta, rallenta, riflette, fa i conti in definitiva con la sua coscienza e prende delle decisioni che si tramutano in atti, gesti, azioni. Non vive nella rimozione e, infatti, il suo passato bussa sempre più forte di fronte ai soprusi sulle ragazze che va annusando. Sono le giovani madri private dei loro bambini e imprigionate come schiave nelle Magdalene Laundry, le case dell’orrore gestite da suore che al cinema abbiamo imparato a conoscere con Magdalene di Peter Mullan (2002) e Philomena di Stephen Frears (2013).
Qui vengono, proprio come accade nel romanzo, date per già narrate e lo sguardo si orienta, piuttosto, su pochissimi episodi che mettono in luce il cammino di vita di quest’uomo: da una parte un bambino che ha avuto l’opportunità di farcela (la signora Wilson non ha mandato via sua madre quando rimase incinta e quando non si sapeva nemmeno di chi) e, dall’altra, un adulto che ora in queste ragazze vede rispecchiato ciò che avrebbe potuto succedere, al tempo, a sua madre e, oggi, anche alle sue figlie.
L’incontro in convento con la giovane Sarah che peraltro porta lo stesso nome della madre di Furlong, segregata nel ricovero esterno destinato al carbone e quello con la madre superiora suor Mary (Emily Watson) che lo mette a tacere con mafiosa generosità, sono i due “esami di coscienza” che mettono in subbuglio l’esistenza del protagonista. Alle prese con sacchi morali di una pesantezza inenarrabile e «una riluttanza tutta nuova» nei confronti dei riti religiosi cattolici, Furlog è arrivato ad un bivio in cui respira anche un’improvvisa solitudine come coniuge di fronte alle ingiustizie subite dalle ragazze. Risuona in lui, senza riuscire a metterla a tacere, l’adultità di chi si scopre padre anche di figli e figlie che stanno al di fuori del proprio focolare.
La speranza qui diventa metodo: «Qualunque sofferenza – scrive, in tal senso, la scrittrice irlandese – stesse per affrontare lui adesso, non era nulla al confronto di quello che aveva già sopportato la ragazza al suo fianco». Nella speranza la sofferenza dell’altro rimane il piatto più carico della bilancia e in questa prospettiva, mai egoriferita, il protagonista supera le sue paure e si pensa capace di reggere l’ansia del futuro che lo attende in famiglia e in paese, l’immancabile giudizio altrui: «…nel suo stupido cuore non solo sperava ma aveva il diritto di credere che ce l’avrebbero fatta». La messa di Furlong è, infatti, quel mettersi accanto Sarah, quel rubarla al male aprendole la strada verso casa sua.
Quei passi del finale che rimane sospeso sulla soglia di un incontro che verrà tra Sarah e le altre donne di Furlong sembra davvero un invito a vivere il cristianesimo con la nostra parte migliore, ciascuno la sua. E lo sguardo di Furlong-Cillian, su cui si chiude quest’opera quasi inafferrabile, diventa evocazione del volto di Cristo, pastore che ci guida per «continuare a dirsi cristiani». Magistrale, in definitiva, il lavoro di riscrittura fatto per il cinema del romanzo di Keegan, opera ad altissimo tasso spirituale, prescelta dallo stesso Murphy, interprete eccellente, e da Yvonne McGuinness, sua moglie.
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