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SCRIPT(A) MANENT, LA SCRITTURA E LO SGUARDO
Gli sceneggiatori dal back stage a protagonisti

La figura dello sceneggiatore al centro sia di Mank di David Fincher sia di The gentleman di Guy Ritchie. Due film distanti tra loro, ma accomunati dall’indagine su quella “forma in movimento” in cui si riflette il lavoro ‘del’ e ‘sul’ tempo. Un tempo condensato, non-lineare e dunque sospeso, come questi lunghi mesi di pandemia.

Nell’evoluzione delle espressioni artistiche il passaggio dalla fase classica alla moderna è quasi sempre definito dall’insorgere dell’autoriflessività. Ultima per ragioni anagrafiche, la narrazione audiovisiva ne è dunque solo l’ennesimo esempio e il momento di tale insorgenza è identificato tra gli anni ’40 e ‘50 del secolo scorso. Proprio nel momento in cui il cinema, giunto alla fase terminale del proprio ‘stadio dello specchio’, inizia a rappresentare se stesso con la coscienza della propria identità. Tale rispecchiamento si distingue per la capacità di adattarsi a generi diversi, ma anche per lo squilibrio che caratterizza la scelta del punto di vista dal quale articolare il racconto.

A fronte di un numero cospicuo di esempi in cui il cinema parla di se stesso attraverso quello dell’attore e/o del regista, infatti, rari sono i film nei quali viene invece assunto lo sguardo di un altro dei molteplici collaboratori di un’opera cinematografica. Appare così curioso – e forse sintomatico – che il contemporaneo rilascio di due titoli di un certo rilievo, per autorialità e impegno produttivo, riportino in auge la figura dello sceneggiatore. Ovvero quel particolare tipo di scrittore ontologicamente differente dall’autore letterario, in quanto figura mediatrice tra una lingua (quella scritto-parlata) e un linguaggio (quello cinematografico, costituito da immagini e da suoni). Figura che sia Mank di David Fincher sia The gentleman di Guy Ritchie mettono al centro della narrazione, evidenziando così l’attenzione che la cinematografia made in Usa gli ha sempre riservato e che non trova eguali riscontri in quelle di altri Paesi.

Al di là di questa equivalenza però, nell’accostare i due titoli si notano innanzitutto le loro differenze espressive (bianco e nero vs. colore; profondità di campo e long takes vs. narrazione frammentata), stilistiche (omogeneità vs. eterogeneità), di genere (biopic vs. black crime-comedy) di recitazione (mimetica vs. sopra le righe), di ambientazione (Hollywood anni ’30 vs. Uk pre-Covid), e di punto di vista (unitario vs. pluralità). Equivalenze e differenze che suggeriscono un’analisi da cui partire per effettuare una ricognizione sulle opere che hanno messo al centro tale figura e una riflessione sulle varie declinazioni assunte dal processo-sceneggiatura all’interno del testo filmico.

Alle radici di Citizen Kane (e non solo)

Costruito con il mirabile contributo di Donald Graham Burt (storico scenografo del regista) e imperniato sull’ennesima, maiuscola interpretazione di Gary Oldman, l’undicesimo lungometraggio di David Fincher affascina soprattutto per la molteplicità dei livelli di lettura che contiene. Il primo e il più evidente dei quali riguarda la genesi di Citizen Kane (Quarto potere), una delle opere seminali della storia del cinema, qui interamente raccontata dal punto di vista del suo sceneggiatore. Un livello sul quale si è perlopiù concentrata la prima reazione della critica, che in molti casi ha evidenziato come Mank sposi la tesi espressa da Pauline Kael in un suo articolo del 1971[1]. Tesi che sminuiva i meriti di Welles nella realizzazione del capolavoro e che accese una lunga querelle nella critica cinematografica statunitense dell’epoca, cui sembrava aver posto una pietra The Scripts of Citizen Kane, il prezioso intervento di Robert L. Carringer nel quale vengono confrontate le sette stesure dello script ritrovate negli archivi RKO[2]. Sarebbe però superficiale credere che la principale intenzione di Fincher sia stata di dare linfa a una tesi già diffusamente confutata e anacronistica. ….

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[1] Intitolato Raising Kane, l’articolo apparve sul “New Yorker” il 3 febbraio 1971 https://www.newyorker.com/magazine/1971/02/20/raising-kane-i

[2] Apparso sul prestigioso “Critical Inquiry”, il contributo di Carringer evidenzia come solo due delle sette stesure siano firmate da Mankiewicz e che in fase di scrittura gli interventi di Welles siano stati molteplici quanto decisivi. Cfr. https://web.archive.org/web/20200628161716/https://www.journals.uchicago.edu/doi/pdfplus/10.1086/447995

 

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Sull'autore

Francesco Crispino

Francesco Crispino è docente di cinema, film-maker e scrittore. Tra le sue opere i documentari Linee d'ombra (2007) e Quadri espansi (2013), il saggio Alle origini di Gomorra (2010) e il romanzo La peggio gioventù (2016).