La recensione di The Apprentice a cura di Paolo Perrone
Un ritratto al vetriolo di Donald Trump, osservato negli anni Settanta e Ottanta, a New York, agli inizi della costruzione del suo impero economico grazie ad una florida attività immobiliare. Al quarto lungometraggio, e al suo primo in terra americana, Ali Abbasi firma, con The Apprentice, un biopic che non riserva molte sorprese allo spettatore, mostrando sullo schermo, in fondo, ciò che ci si aspettava di vedere, ma che mette bene a fuoco le torbide relazioni del futuro presidente degli Stati Uniti (ben interpretato da Sebastian Stan, assai somigliante al tycoon statunitense), incentrandosi soprattutto sulla collaborazione con l’avvocato ultraconservatore Roy Cohn, avvezzo a pratiche legali aggressive e corruttive.
Scritto da Gabriel Sherman, reporter di Vanity Fair, il nuovo lavoro del regista iraniano, naturalizzato danese, non si muove dunque sulle orme di Michel Moore, non evidenziando cioè né i radicali personalismi ideologici né i vibranti guizzi estetici di Fahrenheit 11/9, anch’esso dedicato, in larga parte, a Trump.
Più che un pamphlet di denuncia civile, The Apprentice è infatti una biografia in immagini, a tratti divertente e incisiva, dotata di un buon senso del racconto coerente con le sue finalità: la descrizione di un profilo umano, prima ancora che imprenditoriale e politico, tanto altezzoso e sprezzante quanto goffo e inadeguato, aggrappato a tre principi guida sottratti arbitrariamente, una volta defunto, al proprio avvocato: attaccare sempre e comunque la controparte; negare ogni evidenza, anche quando si sa di avere torto; attribuirsi ossessivamente i meriti dei propri successi, ostentandoli in tutte le possibili occasioni.
L’America first, dunque, costruita sul modello reaganiano ma anche su compromettenti rapporti con ambienti mafiosi e messa in atto con spregiudicate macchinazioni in grado di ammorbidire ogni causa e addomesticare ogni processo.
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