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THE DEAD DON’T HURT (Viggo Mortensen)
Un western introspettivo e poetico

Stati Uniti, 1860, un anno prima dell’inizio della guerra civile. Vivienne Le Coudy è una donna franco-canadese dal carattere fiero e indipendente che, dopo aver rifiutato il matrimonio con un ricco rampollo della borghesia di San Francisco, si guadagna da vivere vendendo fiori in un quartiere cittadino. Quando incontra il falegname danese Holger Olsen, i due si innamorano e decidono di andare a vivere a Elk Flats, nel Nevada. La vita scorre tranquilla, fino a quando Holger decide di andare a combattere come volontario per l’Unione nordista contro i confederati. Vivienne, così, si trova a dover provvedere a se stessa in un clima ostile, diventando bersaglio di uomini avidi e potenti…

I canoni e i simboli rappresentativi del western classico, dagli immensi spazi aperti alle sparatorie in strada, dalla stella di sceriffo appuntata sul petto alle partite a carte e alle bevute nel saloon del paese, ma al servizio di una storia di emancipazione femminile dai suggestivi riflessi contemporanei. Alla sua seconda regia dopo l’esordio dietro la macchina da presa con Falling – Storia di un padre (2020), Viggo Mortensen mette dunque in scena, con The dead don’t hurt, un western ben riconoscibile nelle sue configurazioni tradizionali, a cominciare da un esercizio della violenza metonimico di un genere caratterizzato sullo schermo quasi esclusivamente dalla figura maschile, ma sottraendo progressivamente le connotazioni più esteriori a beneficio, invece, di una dimensione introspettiva e contemplativa, dove a rivestire un ruolo fondamentale è l’orizzonte femminile.

Una prospettiva ‘laterale’, dentro e fuori schemi consolidati, in grado di suscitare nello spettatore una forte partecipazione emotiva senza privarlo, per questo, del piacere del racconto. Un racconto che, in The dead don’t hurt, procede in forme non lineari, con un lungo flashback a raccordare l’incipit allo sviluppo del film, al quale, internamente, si aggiunge un altro riavvolgimento di nastro, la descrizione dell’infanzia di Vivienne. In questo rimescolamento dei piani temporali la regia di Mortensen si muove con ritmi distesi e riflessivi e, soprattutto, con squarci onirici che attribuiscono personalità ai ricordi, in un gioco della memoria che si innesta felicemente nella quotidianità familiare di Vivienne e Holger.

Tutto, insomma, sembra procedere su un doppio binario, distinto ma convergente, nel quale anche la diversa provenienza dei due protagonisti e la commistione delle loro lingue d’origine trasforma elementi di potenziale separazione in strumenti concreti di avvicinamento, di congiunzione di mondi, di apertura verso l’altro. Vicino, almeno nello spirito, a Gli spietati di Eastwood, il film dell’attore e regista americano (qui anche sceneggiatore e compositore) vive non a caso di lunghi silenzi, di un paesaggio che sembra respirare, di evocazioni alimentate ulteriormente da sonorità tanto minimaliste quanto seducenti. Con la presenza, magnetica, di Vicky Krieps, ad attribuire spessore e compiutezza ad un’opera filmica sensibile e delicata.

Regia: Viggo Mortensen

Interpreti: Vicky Krieps, Viggo Mortensen, Solly McLeod, Garret Dillahunt

Nazionalità: Usa, 2024

Durata: 129’

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.