La recensione di Caught by the tides da Cannes 77 a cura di Anna Maria Pasetti
La relazione d’amore per un territorio, per un uomo, e per la memoria di chi non esiste più ma grazie al cinema ha lasciato tracce indelebili. Jia Zhangke è affezionato a questi temi che dissemina da sempre nella propria filmografia, ed è per questo, forse, che al suo decimo lungometraggio, Caught by the tides, (che letteralmente significa catturato dalle maree) decide di riprendere alcuni girati del passato inediti o dei propri lavori precedenti e ricollocarli in una nuova narrazione, quella appunto del film quest’anno concorrente a Cannes.
Inevitabilmente, e ancor più di sempre, film di fantasmi, Caught by the tides si presenta dunque come opera contaminata di formati, cromatismi, musiche e rumori a significare spazi e tempi fluttuanti in una tessitura astratta eppure appassionata e – come emerge ogni volta dallo sguardo immaginifico di Zhangke – densa di intelligenza, emozioni e sentimenti. Nei vari livelli narrativi, l’asse portante del racconto è la vicenda di una donna che viene lasciata dal fidanzato, determinato a cercar fortuna lontano dalla loro città nello Shanxi, luogo natio dello stesso Zhangke, consueta ambientazione di ogni suo film. Imbarcatasi alla ricerca dell’amato, la donna attraverserà oltre vent’anni di storia e cambiamenti culturali della Cina.
Film voluto e pensato negli anni dal cineasta come una sorta di osservazione e ripresa senza sosta del proprio Paese, Caught by the tides assomiglia artisticamente a una partitura sospesa nel tempo seppur dalla collocazione assai storicizzata, un autentico omaggio prismatico alla potenza del mezzo cinematografico, ai lavoratori di una Cina che non esiste più e alla sua musa ispiratrice nonché moglie, Zhao Tao, da sempre protagonista dei suoi film che in questo caso recita senza mai proferir parola, ma dai suoi occhi si sprigiona un mondo di poesia, spirito e vita.
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