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DAL CINEMA NON HO IMPARATO NULLA, NEMMENO LA QUARANTENA
Riflessione semiseria di Gabriele Lingiardi dell'Acec Milano

Se dal cinema si imparasse qualcosa a quest’ora io saprei tutto. Ho vissuto innumerevoli guerre: una trentina di volte quelle mondiali, una decina quelle stellari. Ho visto apocalissi e fini del mondo. Sette per la precisione. Ho tifato eroi indistruttibili e osservato il disfacimento di intere famiglie diventare nuova unione all’ultimo minuto. Ho perso tanti incontri di pugilato, ma mi sono sempre rialzato!
Se i film dicessero il vero dovrei avere finalmente capito come litigare e fare a botte, ma soprattutto come vivere l’amore struggente, quello che ti prende corpo e anima e ti fa correre sotto la pioggia incurante dello sguardo allibito della città.
E invece dal cinema non ho imparato nulla. Ho visto ogni tipo di cimitero, da quelli allineati in bianco su un verde pastello, alle secche croci dell’ovest americano. Ho letto i nomi di personaggi mai conosciuti incisi in fila su pietre d’inciampo, e ho riso per gli scheletri ammucchiati di fronte alla trappola che l’esploratore supererà.
Ho visto tante cose, ma non ero pronto a vedere la marcia dolorosa delle bare dei miei concittadini, trasportate lontano dai propri cari per via di un nemico dal nome, questo sì, molto cinematografico. Covid-19.
I film ti gridano in faccia che gli eroi non vestono come noi. Loro girano il mondo e portano costumi che sembrano disegnati da stilisti, maschere più raffinate di quelle che portiamo noi. Oggi mi guardo intorno e vedo medici, infermieri, mamme, papà, con un altro tipo di costume che si chiama pigiama, per chi lavora da casa, o camice, per chi è in corsia. Ricordo l’Uomo Ragno che salta dalla finestra, lasciando la propria casa, per salvare la città. Oggi gli eroi che salvano la città si chiudono la porta a due mandate dietro di sé e restano nelle quattro mura.
Ammetto che una cosa il cinema l’ha detta giusta: per qualcuno è facile restare a casa, per altri, un incubo.
Vi ricordate l’Overlook Hotel? Bellissimo, ma così pieno di maledizioni che nemmeno un addetto alla derattizzazione avrebbe il coraggio di estirparle. Per altri invece il proprio tetto è un luogo di infinite avventure, come per Carl che ha legato la sua casa a uno stuolo di palloncini e ha esplorato il mondo dal sofà. Se le mura non sono famigliari provocano un lungo Nodo alla gola che ti fa venire voglia di gridare: “scappa!”. Ma i registi si sbagliano. Non l’hanno raccontata giusta. Quando la vivi davvero scopri che la casa non è mai una cosa sola. A volte è ferma, spesso è stretta, a volte calda e sicura, altre volte pericolosa, altre volte invece richiede pazienza e cura. Perché la casa non sono le pareti, ma le persone che hai accanto.
È facile avere visto tutti i film sulle epidemie e credere di sapere tutto. Personalmente sono riuscito a prevedere alcune reazioni dei cospiratori di turno (sono sempre i personaggi più divertenti), ma non avevo capito nulla. Non immaginavo che la quarantena non taglia i momenti morti come Hitchock, ma li dilata come Martin Scorsese.
Dal cinema ho imparato che le video chiamate arrivano quasi sempre da sconosciuti, da assassini, o dall’FBI. Invece nella realtà hanno il quadro decentrato, e sono tenute dalla mano tremante dei nonni, soli in casa, e sono spesso urlate, perché siamo distanti… non sia mai che non ci si senta.
No, dal cinema non ho imparato granché e, ancora una volta, la realtà l’ha superato. Non ero pronto. Non sono pronto. So tutto di sceneggiatura, ma mi ritrovo ancora a preoccuparmi per l’unico finale che non riesco a prevedere.
Eppure dal grande schermo ho imparato una cosa importante. Lo chiamo l’inganno perfetto; l’incanto perfetto. Quello che mi sta aiutando in questi momenti in cui anche l’aria mi fa paura e in cui le persiane alle finestre sembrano un’Alcatraz da cui non si può fuggire. Ho imparato che si può essere liberi, veramente liberi, stando seduti su una sedia. Che si può viaggiare e vivere centinaia di vite creando mondi nella nostra testa. Tutto ciò che vediamo cambia il nostro sguardo, tutto ciò che sentiamo ci insegna ad ascoltare.
Quando il cinema vuole raccontarsi ci mostra l’immagine di bambini o ragazzi seduti in platea e illuminati da uno schermo. Lui guarda noi. Se dovessi raccontare cos’è il cinema oggi userei l’immagine di un divano vuoto, in una casa vuota e immersa nell’oscurità, la tv è accesa, ma non c’è nessuno a guardarla. Gli spettatori sono fuori, avvolti da un’altro tipo di buio, seduti su altre poltrone, circondato da altre pareti, illuminati da un altro schermo e insieme fianco a fianco. A imparare a sognare.

Gabriele Lingiardi è responsabile Comunicazione e Social dell’Acec di Milano

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