Alessandro Cinquegrani recensisce Phantosmia di Lav Diaz.
Un uomo attraversa gli orrori della guerra cercando vanamente di restare umano. Quando torna a casa è affetto da una malattia psicologica – la fantosmia del titolo – che lo porta a percepire ovunque cattivi odori che gli impediscono di vivere una vita normale. La psicoanalista che lo segue gli consiglia allora di tornare a indossare la divisa per tentare di rielaborare quella realtà in modo auspicabilmente meno cruento.
Finirà in un’isola detentiva, dove dovrà confrontarsi con la quotidianità dei prigionieri e delle guardie e con i loro rapporti di potere. Ma poco fuori dal recinto della prigione c’è una capanna adibita a osteria, gestita da una donna che fa prostituire con la violenza la sua figliastra. L’uomo metterà a repentaglio la propria incolumità per cercare di salvare quella ragazza e, in qualche modo, tornare umano.
Lav Diaz, regista filippino già vincitore della Mostra del Cinema nel 2016 con The Woman Who Left, disegna una lunghissima parabola (246 minuti), in un bianco e nero sporco, che si interroga sull’identità umana, sulla vita e la morte, sulla violenza e sul dominio sull’altro. Proprio per la sua natura di parabola, il film si guarda con la percezione che sia una storia minuta, privata, contingente che si svolge in un luogo sperduto del mondo, ma anche una storia universale, assoluta che riguarda tutti, quasi una storia mitologica in grado di parlare di oggi e di sempre, delle logiche altissime che muovono le guerre, e quelle minuscole che portano a piccoli gesti di amore per l’altro.
L’interrogativo che innerva la pellicola è sempre: cosa significa restare umani? Cosa significa mantenere un piccolo recinto di dignità, mentre la vita intorno sembra volgere verso lo sfacelo? Il microcosmo dell’isola diventa quindi l’intero mondo, quello di oggi e forse di sempre, maltrattato da guerre e violenze. Questa dimensione mitologica è sottolineata dalla fantomatica presenza nei boschi di uno strano animale che i personaggi si propongono vanamente di catturare. Viene in mente l’invocazione di Giorgio Caproni ai cacciatori che cercano la Bestia: «Fermi! Tanto / non farete mai centro. / La Bestia che cercate voi, / voi ci siete dentro». Perciò la caccia, nel film come nella poesia, è vana, perché quella Bestia violenta che sconfigge e uccide gli uomini è ovunque ed è parte dell’uomo stesso.
In una Mostra del Cinema in cui uno dei fuochi tematici è inevitabilmente la guerra che sconvolge il mondo in questi anni, questo film presenta una prospettiva diversa in grado di far capire come la guerra in fondo è sempre in ognuno di noi, se si perde la dignità e si cede al potere e alla violenza.
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